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Un genovese sostiene di custodirli in un'ampollina e che gli
scienziati
di Granada stanno esaminando le ossa di Diego, il figlio di Cristoforo
"Li regalarono a un mio avo nel 1877
e di generazione in generazione sono arrivate a me".
Le ossa furono trovate a Santo Domingo dentro un'urna di piombo
che portava il nome in spagnolo del grande navigatore
(Il Giornale, Pubblicato Martedì 13 Gennaio 2004)
C'è
qualcuno a Genova che conserva in un cassetto del suo studio un'ampollina
con le ceneri di Cristoforo Colombo. L'ampolla, chiusa con un lembo di
pelle, è sigillata con cera lacca rossa sulla cui superficie spiccano,
per incisione, tre lettere dell'alfabeto: JBC. Ma cosa significa questa
sigla, e come è mai possibile che un privato cittadino conservi nell'intimità
della sua casa le ceneri di uno dei più grandi personaggi di tutti i
tempi? Il proprietario della preziosa ampollina è un gentiluomo genovese
che non
desidera apparire. Nella sua casa sul mare accetta di buon grado di
rispondere alle domande e spiega come è venuto in possesso della preziosa
ampollina, ma nulla di più. Anche perché
quei pochi grammi di cenere rossastra racchiusa nel vetro sono un ricordo di
famiglia. E la storia viene da lontano, al di là dell'Oceano, durante
una mattina del tardo Ottocento.
«Quel giorno - racconta il nostro ospite - il mio avo Juan Battista Cambiaso, ammiraglio, nativo e residente nell'isola di Santo Domingo, venne chiamato d'urgenza da un servitore del fratello che a quel tempo era console generale d'Italia nell'isola. Era il 10 settembre del 1877 e da diversi giorni una squadra di operai stava lavorando nella cattedrale alla ricerca dei resti di Cristoforo Colombo. Come si sa, il grande navigatore morì a Valladolid il 20 maggio del 1506 e nel 1537, dopo la morte del primogenito Diego Colombo Muniz, duca di Veragua e Grande di Spagna, la di lui vedova, Maria de Royas y Toledo, decise di trasferire i corpi di entrambi a Santo Domingo per adempiere alle ultime volontà dello stesso Cristoforo che desiderava riposare nel Nuovo Mondo. I resti di padre e figlio furono dunque caricati su una nave e tumulati in un punto non ben definito della cattedrale di Santo Domingo. C'è anche da dire che nel 1898, avendo perso anche l'ultima colonia nel Nuovo Mondo, gli spagnoli riesumarono i resti di quella che era ormai diventata la loro gloria nazionale e li riportarono in patria dove li sistemarono in una tomba monumentale nella cattedrale di Siviglia».
Ma allora come è possibile che ci fossero ancora dei resti a Santo Domingo?
«Il punto è proprio questo. I due fratelli Cambiaso, che appartenevano
a un ramo della famiglia genovese trasferito probabilmente nel tardo Settecento
a Santo Domingo, ritenevano che in qualche modo gli spagnoli si fossero sbagliati
nel prendere i resti di Colombo. Ed è per questo che avevano convinto
le
autorità locali a intraprendere quella ricerca. E iurono fortunati. Perché
quella mattina di settembre, scavando sotto l'altare maggiore, prima trovarono
una vecchia bara con i resti di un certo Luigi Colombo, probabilmente un parente.
Poi, andando più a fondo, saltò fuori una cassa di piombo al cui
interno si trovavano 13 ossa grandi, 28 piccole e una pallottola di piombo.
Sul coperchio, nella parte interna, c'era la scritta "Ilustrisimo
y distinguido varòn, Don Cristobal Colon". Non solo: tra le ossa
gli operai trovarono anche una placchetta d'argento con il nome dello
stesso Colombo».
Dunque, secondo questa versione dei fatti, gli spagnoli si sarebbero davvero sbagliati?
«Non c'è dubbio. In ricordo del ritrovamento, che accertava Santo
Domingo come sede della vera tomba di Colombo, le autorità locali donarono
una piccolissima parte dei resti al fratello del mio avo, il console; un'altra
parte più consistente al Comune di Genova, che ancora adesso la conserva
in una teca a Palazzo Tursi, e il resto lo inumarono nella tomba monumentale
che costruirono sull'isola e che chiamarono Faro a Colon. La si può
visitare ancora adesso».
E quei resti come sono arrivati fino a lei?
«Il console italiano li regalò al fratello ammiraglio, appunto Juan Battista Cambiaso, il quale li versò in un ampollina che poi chiuse con la cera lacca apponendo il suo sigillo personale: JBC. Successivamente l'ammiraglio donò l'ampollina a sua sorella, Giuditta Cambiaso in Ventura, il cui figlio Miguel Ventura l'ha conservata tramandandola di generazione in generazione fino a me».
Ci sono documenti o prove che certifichino l'autenticità della scoperta e, quindi, di questi resti?
«Qui in casa mia, come posso farvi vedere, conservo ancora il documento
ufficiale che venne preparato in quell'occasione per mostrare le varie
fasi della
scoperta. Il tempo vi ha lasciato il segno, ma si legge ancora tutto. Inoltre
ho anche le dichiarazioni giurate dei miei avi che raccontano come si sono svolti
i fatti e come sono entrati in possesso dei resti».
Lei si rende conto che, stando così le cose, gli scienziati dell'Università di Granada che stanno analizzando i resti conservati nella cattedrale di Siviglia, sono del tutto fuori pista…
«Infatti gli spagnoli a Siviglia con ogni probabilità conservano le ceneri del figlio Diego, e non di Colombo. I veri resti di Colombo sono rimasti a Santo Domingo».
C'è anche un'altra considerazione da fare: se Santo Domingo non dovesse autorizzare l'esame dei resti, come in un primo tempo sembrava, il Dna di Colombo potrebbe non trovarsi mai.
«A meno che gli spagnoli non chiedano di esaminare i resti conservati a Tursi. Quelli sono autentici. Dubito, però, che il Comune di Genova accetti di disfarsi di una simile reliquia».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
(Foto: © 2004 Bruno Maccarini)
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