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Le rivelazioni del libro “Uccidete il comandante bianco” di Giampaolo Pansa

La Resistenza di Bisagno
oscurata dai comunisti

Come l’ex PCI ha propagandato l’operazione “C’eravamo solo noi”

di Rino Di Stefano

(RinoDiStefano.com, Pubblicato Giovedì 25 Aprile 2019)

Copertina del libro “Uccidete il comandante bianco. Un mistero nella Resistenza” di Giampaolo PansaIl 25 Aprile, giorno della Liberazione, non è la festa esclusiva dei comunisti italiani. A far nascere intenzionalmente questa nomea è stato il Partito Comunista Italiano prima, il Partito Democratico poi, con l’operazione “C’eravamo solo noi”. Ma non è vero! La Resistenza al nazi-fascismo è stata un movimento spontaneo di popolo al quale hanno partecipato tutti coloro che non si consideravano fascisti e che volevano combattere, armi alla mano, il regime che da vent’anni tiranneggiava l’Italia.  Nella Resistenza i partigiani che non si riconoscevano nel comunismo erano davvero molti. La maggior parte dei ribelli, è vero, erano comunisti. Ma combattevano fianco a fianco con tanti altri che appartenevano a formazioni politiche che nulla avevano a che vedere con la bandiera rossa. Erano i cosiddetti “partigiani bianchi” che si riconoscevano nelle formazioni dei cattolici (Democrazia Cristiana) e quelle laiche (Giustizia e Libertà, Socialisti, Repubblicani e Liberali). La presenza di questi gruppi disturbava alquanto i comunisti, i quali non potevano quindi propagandare, come invece hanno fatto nel dopoguerra, che i veri partigiani fossero tutti comunisti. C’è da dire che da sempre la propaganda rossa ha messo in giro la voce che chi non appartiene alla falce e martello deve essere per forza fascista. Questa affermazione gratuita tende ad escludere che tra il nero dei fascisti e il rosso dei comunisti non ci siano colori intermedi. O sei da una parte o dall’altra. Ovviamente non è così, ma questo spiega, per esempio, come mai negli anni Ottanta-Novanta, la macchina da guerra del PCI si sia mossa soprattutto contro i socialisti di Craxi, considerati a tutti gli effetti i peggiori nemici dei comunisti. Del resto, e questa è un’affermazione che la storia ha ampiamente dimostrato, il vero obiettivo dei comunisti italiani durante la Resistenza era sostituire la dittatura fascista con una dittatura comunista. Della libertà e della democrazia in quanto tale, al PCI non è mai interessato nulla. E se non ci sono riusciti lo si deve al fatto che a liberare l’Italia durante l’immane tragedia della Seconda Guerra Mondiale, non sono stati i partigiani (anche se hanno fatto egregiamente la loro parte, considerando il loro numero), bensì le forze armate anglo-americane. Senza gli americani fascismo e nazismo sarebbero rimasti al potere, e questo è un fatto che nessuno può contestare. Nonostante ciò, visto che la propaganda è sempre stata l’arma vincente dei comunisti di casa nostra, si è cercato di inculcare nell’immaginario collettivo l’idea che i partigiani fossero solo comunisti. Un esempio di questa strategia è ben tratteggiato nel libro Giampaolo Pansa“Uccidete il comandante bianco” di Giampaolo Pansa. Il sottotitolo è “Un mistero nella Resistenza”, in quanto la vicenda raccontata nel volume ha un finale che non è mai stato chiarito del tutto. Anche se la si conosce abbastanza per addebitare ai comunisti il tragico epilogo della storia. Ma vediamo di che cosa si tratta. Il comandante bianco di cui parla Pansa è un personaggio molto noto a Genova, e cioè Aldo Gastaldi, classe 1921, il cui nome di battaglia era Bisagno, dal fiume che attraversa il centro genovese. Gastaldi nell’autunno del 1943, a ventidue anni, va in montagna insieme a diversi giovani della sua generazione e dà vita ad un movimento partigiano che di lì a poco avrebbe provocato diversi dispiaceri alle forze nazi-fasciste che occupavano l’area genovese. Come dice Pansa, Gastaldi era “un giovane altruista, coraggioso, un cattolico che non aveva paura di morire, convinto che il suo destino fosse nelle mani di Dio”. Ovviamente il non essere comunista lo rendeva inviso ai rossi, tanto più che nel giro di qualche mese Bisagno divenne il comandante indiscusso della Cichero, una divisione partigiana Garibaldi, considerata la più forte della Liguria. La bravura e il carisma di Bisagno non erano messi in  discussione da nessuno, nemmeno dai comunisti. Ma quel giovane, che loro consideravano troppo legato alla Curia genovese e ai democristiani del tempo, era diventato davvero una spina nel fianco. Come si poteva promuovere l’operazione “C’eravamo solo noi” se il capo dei partigiani genovesi era un cattolico che se ne infischiava dei comunisti? Ma vediamo che cosa ci racconta l’onesto revisionismo di Giampaolo Pansa. Aldo Gastaldi era nato a Genova nel settembre del 1921, primo di cinque figli di una famiglia come tante. Dopo il diploma di perito industriale, venne chiamato alle armi ed entrò nella Scuola Ufficiali del Genio, a Pavia. Risultò terzo su settecento iscritti al corso. Era alto, aitante, di una robustezza asciutta e, soprattutto, aveva una straordinaria attitudine al comando. La sua dote, principale, però, era il carattere. “Generoso, altruista, consapevole dei doveri che spettano a chi guida un reparto di ribelli – scrive Pansa – A differenza di molti giovani che si dichiaravano comunisti, lui non aveva una fede politica precisa. Ma era un cattolico convinto e di grande rigore. Cercava di vivere secondo un codice dai canoni imperativi: l’onestà personale, la moralità privata, la castità, il rifiuto della menzogna, a cominciare da quella insita nell’ideologia comunista che si riteneva superiore alle altre”. E’ così che inizia l’avventura di quello che potremmo definire un templare dell’era moderna. L’armistizio dell’8 settembre 1943, che fa precipitare l’Italia nel caos più assoluto, lo vede a Chiavari, nella riviera ligure di Levante, sottotenente del Genio. Non esitò neanche un giorno. Abbandonò la divisa, racimolò tutte le armi gettate dai militari in Aldo Gastaldi, detto Bisagnofuga e, con un gruppo di amici salì a Cichero, una frazione di San Colombano Certenoli, nell’entroterra chiavarese. Il primo nemico da sconfiggere fu il tremendo gelo dell’inverno tra il 1943 e il 1944. Poi cominciò a combattere i nazi-fascisti ed è allora che, anche contro la sua stessa volontà, nacque il mito di Bisagno. “Era un monaco atletico – scrive Pansa – un Gesù Cristo con il fucile a tracolla, il ragazzo dell’oratorio diventato capo ribelle. Capace di un coraggio spericolato, veniva amato dai suoi uomini per come viveva il rapporto anche con l’ultimo dei partigiani. Questo rapporto era fondato su una grande generosità. Bisagno amava come fratelli i ragazzi che stavano in banda con lui. Li difendeva sempre. Era il primo ad affrontare il pericolo e l’ultimo a ritirarsi. Ma ai suoi partigiani chiedeva di combattere in modo pulito, senza crudeltà. L’unico suo difetto era di essere schietto sino all’ingenuità”.
Ai giovani della Divisione Garibaldi Cichero, fondata e comandata da lui, diceva: “Aspettate prima di aderire a un partito. Imparate a ragionare con la vostra testa. Dopo la guerra deciderete”.
Del resto, egli stesso non nascondeva che il suo unico traguardo era la sconfitta dei tedeschi e dei fascisti per ritornare a vivere nella libertà. Si può dunque immaginare quanto fastidio potesse dare quel giovane ai comunisti. Anche perché persino i partigiani rossi che combattevano con lui nella Cichero, rischiando la vita ogni giorno, lo amavano e lo seguivano. Un esempio era un amico di Bisagno, e cioè Giovanni Serbandini, detto “Bini”, un professore di nove anni più anziano di lui. Pansa lo definisce “un monaco rosso”, in quanto comunista convinto e capace di qualunque sacrificio per il partito. Ebbene quel comunista andava perfettamente d’accordo con Bisagno, condividendo in tutto e per tutto l’etica che la formazione partigiana si era data: “Guai a fare un torto ai contadini dell’Appenino. Guai a infastidire le ragazze. Guai persino a bestemmiare. Chi imprecava veniva legato a un palo per qualche ora, sotto gli sguardi ironici dei compagni. Chi rubava, fosse soltanto per calmare la fame, rischiava di essere fucilato”. Del resto, diceva Bisagno: “Ci vuole più coraggio a uccidere che a farsi uccidere. Spiegava ai suoi partigiani che non si doveva odiare il nemico, ma soltanto combatterlo e vincerlo. Poi insisteva con una serie di divieti. Non si dovevano torturare i prigionieri. Non si dovevano fare rappresaglie. E neppure provocarle con azioni di scarso peso militare, ma capaci di generare reazioni terribili. Infine non si doveva dimenticare che erano i civili i più esposti ai rischi della guerra. Raccomandava: ricordate che dopo un assalto Gastaldi in una foto ricordo con i suoi partigianinoi ce ne andiamo, ma la gente della vallata resta nelle proprie case, alla mercé dei fascisti e dei tedeschi”.
Nell’ottobre del 1944 la metà dei 1200 uomini della Cichero erano iscritti al PCI. E i comunisti cercavano di fare da padroni. Basti pensare che il SIP, e cioè il Servizio informazioni e polizia delle Divisioni Garibaldi, era composto da cinquanta partigiani, tutti militanti comunisti. Comunisti di ferro erano anche Anton Ukmar, chiamato Miro, che sarebbe diventato capo dell’intera Sesta zona ligure, così come Amino Pizzorno, nome di battaglia Attilio, comandante del SIP.  Ed ecco che cosa disse Bisagno di questi due: “Quelli come Miro e Attilio vogliono prendersi per intero il potere in Italia. E consegnare il nostro paese ai sovietici perché ne facciano la provincia occidentale dell’impero di Stalin. Dovremmo rompere subito con loro. Ma questo servirebbe soltanto a spaccare le unità partigiane. E non possiamo farlo per rispetto dei tanti ragazzi che abbiamo portato a morire”.
Insomma, nonostante fossero costretti a convivere, Bisagno e i capi comunisti si detestavano a vicenda e ben presto giunsero voci che una fazione del partito di Palmiro Togliatti voleva la sua testa. Qualcuno lo avvertì, ma Bisagno non se ne curò più di tanto. L’epilogo, però, era vicino. Tutto avvenne la mattina del 21 maggio 1945 quando Gastaldi decise di scortare verso casa un gruppo di alpini del battaglione Vestone che nel novembre del 1944 aveva lasciato la divisione Monterosa della RSI per passare alla Cichero. Si trovavano a Genova e dovevano andare a Riva del Garda, ma temevano di essere attaccati dai partigiani comunisti. La spedizione era composta da un autocarro Fiat 666 e una camionetta Volkswagen, preda di guerra. Sul camion, oltre agli alpini, c’erano Bisagno e tre partigiani: l’autista Ettore Filipassi, Adolfo Burlando, detto Barbera, e Dorino Cappelli. Sul mezzo si trovava anche un personaggio misterioso, rimasto senza nome. Qualcuno aveva dato a Bisagno una borraccia piena di acqua o di vino, non si sa. Dopo averne bevuto qualche sorso, Bisagno cominciò a non sentirsi bene. Prima di tutto aprì una borsa a tracolla, da cui non si separava mai, che conteneva documenti riservati. E si mise a distribuire quelle carte, insieme a banconote. Poi, secondo le testimonianze, si mise a cantare. Cosa che non faceva mai. Quindi pretese di salire sul tettuccio dell’autocarro, dove ovviamente non  c’erano appigli di alcun genere. Il monumento che Rovegno, in Val Trebbia, ha dedicato alla memoria di Gastaldi e dei partigianiInsomma, era uscito di testa. La tragedia scoppiò dopo pochi minuti. Un mezzo militare alleato tagliò la strada al camion e, per non urtarlo, Filipassi sterzò in modo brusco. Bisagno, che era sdraiato sul tetto, venne dunque scaraventato sulla strada, finendo sotto la ruota di sinistra del Fiat 666. Lo portarono subito all’ospedale di Desenzano, ma la corsa fu inutile e Bisagno morì. Aveva 24 anni. Dalle testimonianze risultò evidente che qualcuno aveva sciolto una droga nella borraccia, ma quando i carabinieri di Desenzano la cercarono non la trovarono. Qualcuno l’aveva fatta sparire. Restò ignota anche l’identità dell’ultima persona che viaggiava con il gruppo. Di lui si persero le tracce. L’unica certezza di quel viaggio fu la morte di Aldo Gastaldi, detto Bisagno, mitico comandante della Divisione partigiana Garibaldi Cichero, alla fine di una guerra maledetta. Fu così che il PCI avviò l’operazione “C’eravamo solo noi”, non più disturbato dalla presenza di un ingombrante capo partigiano che avrebbe potuto smentirli pubblicamente. E iniziò anche la vendetta post-bellica, osteggiata fino all’ultimo da Bisagno,  con l’uccisione di oltre 800 persone nella sola Genova, dei quali 456 erano civili, comprese 71 donne. Del codice morale dei partigiani della Cichero nessuno sentì più parlare.

“Uccidete il comandante bianco. Un mistero nella Resistenza” di Giampaolo Pansa, Rizzoli Editore, 2018, 289 pagine, ISBN 9788817098175, €20,00.

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