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In un volume di Garibaldi del 1874 tutta la verità sulla storica avventura
Il generale racconta di quando i volontari
sgominarono l'esercito
borbone con "vecchi catenacci"
(Il Giornale, Pubblicato Martedì 6 Marzo 2007)
Una
delle tante idiozie proposte dalla fiction Rai «Eravamo solo Mille»,
è stata la partenza da Quarto presentata come una specie di gita sociale
di una ventina di persone, di giorno, da una spiaggia con la sabbia bianca.
Peccato che nella realtà il fatto avvenne di notte e i Mille fossero
suddivisi tra la Foce e Quarto, con il grosso del gruppo in attesa su quello
che Garibaldi chiama il «promontorio di Quarto». Ma ecco le sue
parole:
«O notte del 5 Maggio, rischiarata dal fuoco dei Mille luminari, con cui
l'Onnipotente adornò lo spazio! Bella, tranquilla, solenne di quella
solennità che fa palpitar le anime generose, che si lanciano all'emancipazione
degli schiavi! Io ti saluto! E vi saluto, o miei compagni giovani, oggi provetti
e maggior parte mutilati o segnati con gloriosissime cicatrici».
Il generale è un po' aulico e si commuove pensando a quella notte
in cui lui e la sua «banda», come erano chiamati, trepidavano sugli
scogli aspettando di vedere all'orizzonte i due vapori «Piemonte»
e «Lombardo», partiti dalla vecchia darsena, oggi Porto Antico.
«Eccoli! Eccoli! E maestosi s'avanzavano i due piroscafi, e i gozzi,
già preparati, cominciavano ad imbarcare militi, armi, munizioni; e la
gioia dei giovani volontari, che avrebbero voluto manifestarla almeno con un
canto patriotico, era moderata dai più provetti con un "Per Dio!
ci fermano se fate chiasso!". E quei prodi religiosamente tacevano, per
non essere sviati dalla santa impresa!».
Garibaldi si lamenta quindi del contrabbando fatto delle merci che servivano
alla spedizione e che, per un soffio, non l'avevano fatta fallire.
«E veramente la spedizione dei Mille fu compromessa da quel turpe mercato.
E come non doveva essere? Essa doveva sbarcare su un'isola, i cui abitanti
erano forse unici per patriottismo e per risoluzione. Ma la Sicilia non aveva
meno di cinquanta mila scelti soldati, una squadra formidabile che ne difendeva
le coste, ed i valorosi che s'erano innalzati contro il tiranno, decimati
dai combattimenti e ridotti agli estremi. Approdar con tutto ciò senza
munizioni da guerra e coi mille catenacci che la benevolenza governativa avea
concessi, in sostituzione di 15 mila buone carabine, che erano di proprietà
nostra e dal governo sequestrate!».
Non sarà la prima volta che Garibaldi se la prende con Cavour e con i
Savoia, arrivati al punto di sequestrare le armi nuove per evitare che si potesse
dire che il governo avevano armato la spedizione.
Il giorno dopo, il 6 maggio, i due piroscafi raggiunsero il porto di Talamone
dove si trovava un deposito di munizioni. Per evitare uno scontro armato, Garibaldi
usò uno stratagemma: si presentò nella sua divisa da generale
dell'esercito sardo. Quando l'ufficiale di turno se lo trovò
davanti, si mise sull'attenti e fornì senza fiatare le munizioni
di cui la spedizione aveva bisogno. «Quel bonetto da generale agli occhi
dell'Ufficiale veterano, ebbe un effetto stupendo e metarmorfosò
in un momento il capo rivoluzionario in Comandante legale», racconta.
Ad
un certo punto sul «Piemonte», dove viaggiava il generale, nacque
un alterco tra il maggiore Bassini e il tenente Piccinini, il primo di Pavia
e il secondo di Bergamo. Era l'ora del rancio e gli altri erano fermi
a guardarli mentre i due si dicevano di tutto. «Più curioso ancora
- scrive Garibaldi - era osservare quella massa di giovani, fra cui molti studenti
e professori, appartenenti a cospicue famiglie; osservarli dico, colla loro
scudella alla mano, divorando cogli occhi la caldaja ed aspettando impazienti
e silenziosi, che finisse la quistione tra i due veterani Ufficiali».
La liti finì con un imprevisto quando uno dei volontari, che già
aveva accusato problemi mentali, si buttò in mare per tentare il suicidio.
«Il salvato dall'onde manifestò alcuni segni di pazzia e
forse egli si gettò col proposito di raggiungere il Lombardo che veniva
dietro il Piemonte; la freschezza del mare però, tornandolo a più
savi consigli, egli mostrossi espertissimo nuotatore, lottando per ragiungere
il palischermo che vogava alla di lui direzione». Successivamente l'uomo
tentò un'altra volta di uccidersi quando la nave arrivò
in vista delle coste siciliane, e quella volta il nuovo tentativo mandò
davvero in bestia il generale.
E finalmente giunsero a Marsala. Garibaldi ricorda che i suoi furono subito
aiutati dai marinai dei «legni mercantili» ancorati nel porto e
che subito dopo il generale Turr marciò con una compagnia verso la città,
dove i volontari furono accolti senza la benché minima resistenza. «Intanto
i Mille sfilavano, coperti dal molo e poco curando una pioggia di granate e
mitraglie, che il naviglio borbonico inviava a profusione e che per fortuna
non cagionò feriti».
E si arriva così al primo e fondamentale scontro armato, alla battaglia
di Calatafimi, all'alba del 15 maggio, quando si decise concretamente
quello che sarebbe stato il futuro della spedizione. I Mille, cui si erano aggiunti
un buon numero di «picciotti» inviati dai fratelli Giuseppe e Stefano
Triolo, baroni di Sant'Anna e dal possidente Giuseppe Coppola (denominati
«Cacciatori dell'Etna»), erano ormai circa 2000. Di fronte
si trovarono 3344 soldati borbonici comandati dal generale Landi, dei quali
2172 sul campo di battaglia e altri 1172 in retroguardia nel paese di Calatafimi.
I borboni si assestarono su una collina chiamata «Pianto dei Romani, ove
esiste la tradizione esser stati i Romani disfatti in quel sito dai Siciliani,
collegati alla potente popolazione di Segeste, di cui si scoprono le ruine,
non lontane al Settentrione».
I garibaldini, invece, si posizionarono sul colle di Petralonga schierando i
carabinieri genovesi in avanguardia. Dietro c'era il secondo battaglione
agli ordini di Nino Bixio. Garibaldi e il tenente generale Giuseppe Sirtori
ordinano un primo attacco a mezzogiorno e «i Napolitani sono ricacciati
sull'altura a passo di corsa». E vi fu il primo caduto: «Comunque
già i prodi Liguri avevano un morto e vari feriti».
Alle 14 scatta il secondo attacco garibaldino con il maggiore Acerbi che conduce
i suoi ragazzi e un piccolo corpo di squadriglie siciliane contro il nemico.
Respinti, i napoletani si riuniscono nella seconda altura e da lì fanno
fuoco, dall'alto verso il basso, contro gli uomini di Garibaldi. Ma l'impeto
è inarrestabile.
«Come foriero di vittoria, uno squillo di tromba nostra suonò una
sveglia Americana e la vanguardia nemica, come per incanto, fermossi e forse
i suoi capi si pentirono d'aver avanzato tanto. I Borbonici capirono di
non aver da fare colle sole squadre e le loro catene cominciarono un movimento
retrogrado. I Mille toccarono allora la carica, i carabinieri Genovesi in testa
e con loro un'eletta schiera di giovani non appartenenti alle compagnie,
ed impazienti di menar le mani. L'intenzione della carica era di fugar
la vanguardia nemica e d'impossessarsi dei pezzi, ciocché fu eseguito
con un impeto degno dei campioni della libertà Italiana; non però
di attaccare di fronte le formidabili posizioni occupate dal nemico con molte
forze. Però chi fermava più quei focosi e prodi volontari, una
volta lanciati sul nemico? Invano le trombe toccarono Alto! I nostri, o non
le udirono, o fecero i sordi e portarono a bajonettate la vanguardia nemica
sino a mischiarla col grosso delle forze borboniche, che coronavano le alture».
La
situazione era drammatica. I borbonici continuavano a bersagliare i garibaldini
uccidendone a decine, ma questi salivano incuranti delle perdite verso la sommità
della collina. Si arrivò al punto che Bixio suggerì a Garibaldi
di ritirarsi. La storia ci ha tramandato che fu quello il momento in cui Garibaldi
rispose: «Qui si fa l'Italia o si muore». Nella realtà
pare invece che il generale avesse detto: «Ritirarci, ma dove?».
E fedele al suo principio che quando si è iniziata una battaglia non
bisogna mai mollare per nessuna ragione, Garibaldi ordinò il terzo e
più violento attacco della giornata. Erano le 3 del pomeriggio. E i volontari
garibaldini, armati di vecchi fucili che spesso non funzionavano neppure, stavano
annientando un esercito di soldati professionisti e ben armati. «Mi fa
ribrezzo il ricordarlo - scrive il generale- i catenacci con cui ci aveva regalato
il governo sardo, ci negavano fuoco, e si scorgeva il dispetto sull'eroiche
fisionomie di quei giovani, che spero prenderà ad esempio la generazione
che segue, destinata a compiere l'opera santa. Qui pure fu grande il servizio
reso dai figli della Superba! che, armati delle loro buone carabine, sostenevano
l'onere delle armi. Tutti poi, corrispondendo all'intemerata risoluzione
di andar avanti, finirono coll'affidarsi al freddo ferro delle loro bajonette».
Fu l'inizio della fine del dominio borbonico sull'Italia meridionale.
Da quel momento in poi, infatti, l'avanzata dei Mille, che presto si trasformarono
in diverse migliaia con l'arrivo di altri volontari da ogni dove, portò
all'unificazione del territorio italiano sotto il regno dei Savoia, completato
più tardi con l'annessione del Regno Pontificio.
Un'altra stupidata della fiction è quella di aver dipinto i Mille
con la camicia rossa dei garibaldini. Non era così, e lo testimonia lo
stesso Garibaldi. «I Mille, vestiti in borghese, degni rappresentanti
d'una nazione oppressa, assaltavano, col sangue freddo dei trecento di
Sparta e di Roma, un nemico numeroso, di posizione in posizione e formidabile,
ed i soldati della tirannide, brillanti di pistagne e spalline fuggivano davanti
a loro».
Quei giovani fecero la storia. «Calatafimi! - scriverà infine Garibaldi
- Io, avanzo di tante pugne, se all'ultimo respiro i miei amici vedrammi
sorridere l'ultimo sorriso d'orgoglio, esso sarà ricordando.
Tu fosti il combattimento di popolo più glorioso!».
Nella battaglia di Calatafimi persero la vita 41 garibaldini, tra i quali anche
il camoglino Simone Schiaffino, 25 anni, timoniere del «Lombardo»
e componente del quartier generale di Garibaldi, che l'analfabetismo storico
degli autori Rai (quello sì, autentico) ha fatto passare per analfabeta.
Schiaffino morì andando all'attacco con la bandiera dell'Italia
in mano, trafitto da numerosi colpi.
I feriti tra i garibaldini furono 126. I morti tra le squadre siciliane furono
6, una ventina i loro feriti. I borbonici lasciarono sul campo una trentina
di soldati ed ebbero 62 feriti.
Su quello stesso colle dove i volontari di Garibaldi sconfissero i borbonici,
adesso sorge un monumento ossario dove sono conservati i resti di tutti quei
giovani che donarono la vita per unificare l'Italia. Sarebbe bello che
in questi giorni, celebrando i duecento anni dalla nascita di Garibaldi, qualcuno
avesse un pensiero anche per loro.
RDS
© RIPRODUZIONE RISERVATA
(Fonte: © Cronologia.it)
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