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Fu la strage più efferata compiuta all'ombra della
Resistenza e durò, a fasi alterne,
dal 1944 al 1985 coinvolgendo partigiani conosciuti come "la banda dei
vitelli"
Tutto iniziò con l'agguato a un reparto tedesco in
fuga nel '45: i soldati vennero tutti uccisi
e il loro carico, un vero tesoro, sparì e venne diviso tra gli attentatori
(Il Giornale, Pubblicato Martedì 1 Maggio 2007 – Giovedì 3 Maggio 2007)
Le
recenti manifestazioni commemorative del 25 Aprile, 62esimo anniversario della
Liberazione dal dominio nazista, hanno riportato in primo piano uno dei più
misteriosi, e irrisolti, fatti di sangue che la storia d'Italia ricordi:
il giallo di Bargagli. Nel corso di oltre mezzo secolo in questo paesino di
2.654 anime abbarbicato sulle colline dell'alta Val Bisagno, sono avvenuti
ben 23 omicidi collegati senza ombra di dubbio ad un unico episodio bellico
del quale, però, non si sa assolutamente nulla. Le "notizie"
di cui si dispone, se di "notizie" si può parlare in quanto
sembrano piuttosto dicerie nate su una leggenda la cui veridicità storica
è tutta da dimostrare, parlano di un favoloso tesoro che un gruppo di
"partigiani" avrebbe rubato ad un reparto tedesco in fuga nel 1945.
Persino la parola "partigiani" è tutt'altro che scontata
visto che, con buona pace di coloro che coltivano per fini strumentali il mito
della Resistenza, tutto lascia supporre che autori di quella rapina di guerra
non furono affatto reparti inquadrati di partigiani, quanto piuttosto delinquenti
comuni che a una settimana dal 25 Aprile del '45 si inserirono nelle file
della Resistenza per goderne, dopo, i frutti politici. Non si tratta, ovviamente,
di una grande novità. Gli italiani, come diceva a suo tempo Ennio Flaiano,
sono sempre pronti a saltare sul carro del vincitore, per cui il fatto che nel
dopoguerra si scoprisse un numero di partigiani decisamente superiore a quello
di chi aveva combattuto realmente in montagna contro le forze nazi-fasciste,
non ha stupito nessuno. Del resto, mentre durante il ventennio erano tutti fascisti,
dopo non se ne trovava più uno. Sempre con le dovute eccezioni di chi
in quegli ideali credeva davvero.
Fatto sta che a partire dal 1944 a Bargagli si è verificata una strage
a fasi alterne e dal momento che ha coinvolto partigiani o presunti tali, l'Associazione
Nazionale Partigiani Italiani ha sempre preso il megafono cercando di difendere
l'onore dei suoi iscritti. Il fatto poi che la stragrande maggioranza
delle amministrazioni pubbliche locali e regionali siano quasi sempre state
di sinistra, anche eventuali inchieste giudiziarie finivano per essere insabbiate
con grande soddisfazione del Pci prima e dei Ds dopo.
Ma per avere un'idea più precisa di quanto è accaduto nei
63 anni che ci separano da quel fatidico 1944, cerchiamo adesso di riassumere
i fatti così come risultano dalle cronache giudiziarie e dai resoconti
storici.
Tutto
cominciò durante la Seconda Guerra Mondiale quando, a causa dei sempre
più severi razionamenti, cominciò a fiorire la borsa nera. La
zona di Bargagli, con le sue 33 frazioni disseminate sull'Appennino, era
ideale per produrre beni che poi venivano venduti a peso d'oro a Genova
e nelle riviere. Soprattutto la carne. E infatti nei primi anni Quaranta si
formò una banda di "borsari neri" che macellavano gli animali
e poi ne vendevano in modo clandestino i pezzi più pregiati. Questi uomini,
di cui ufficialmente i nomi non sono mai stati fatti, erano conosciuti come
la "banda dei vitelli". A Bargagli, però, c'era un
appuntato dei carabinieri, Carmine Scotti, che aveva tutta l'intenzione
di far rispettare la legge. Napoletano, quarantenne, sposato e padre di un figlio,
Scotti prese di mira i "borsari" facendone condannare alcuni dal
Tribunale di Chiavari. Considerando che durante la guerra quello era un reato
particolarmente grave, gli imputati vennero condannati a due anni di galera
senza la condizionale.
In seguito le cose si aggravarono e anche Scotti, che era di fede monarchica,
nel '44 dovette fare la sua scelta: restare con la nuova Repubblica di
Salò o mantenersi fedele al re. Non ebbe dubbi e, messa la famiglia al
sicuro, lasciò il suo ufficio di Bargagli e raggiunse i partigiani bianchi
al Sassello, sulle alture di Savona.
Ma a Bargagli il suo nome non era stato dimenticato. Anzi. Pare che un bel giorno
una certa Maria, ragazza prossima alle nozze e da alcuni anni membro della "banda
dei vitelli", chiese come regalo di nozze proprio la testa di Carmine
Scotti. E fu accontentata. Il 12 febbraio 1944 una staffetta partigiana informò
Scotti che a Bargagli la sua casa era stata saccheggiata, per cui occorreva
la sua presenza. Non sospettando nulla, l'ex carabiniere si presentò
in paese e cadde nella trappola. Fu la sua fine. Per due giorni i "borsari"
si divertirono a torturare il povero Scotti nei modi più feroci: fu fatto
camminare sui ricci di castagne, picchiato a sangue, gli cavarono entrambi gli
occhi, lo legarono a una stufa rovente e infine, quando era ormai agonizzante,
lo finirono con un colpo in testa. La Maria, novella Salomé, aveva avuto
il suo regalo.
Neanche il corpo martoriato fu rispettato. Prima lo seppellirono provvisoriamente
nel cimitero di Bargagli, poi lo trasferirono in quello della vicina Gattorna.
Questo
fu dunque il primo, atroce delitto dei "borsari", ma non quello
che scatenò tutti gli altri. Infatti questo primo orrendo omicidio ebbe
in comune con tutti quelli che seguirono soltanto gli autori, non la motivazione.
Il giorno fatidico è il 19 Aprile 1945 quando un reparto della Wehrmacht,
proveniente dai cantieri navali di Riva Trigoso, risale la Val Bisagno e si
addentra nel bosco della Tescosa, vicino a Bargagli. Su questo episodio si è
creato più di un malinteso, in quanto nello stesso posto ma otto giorni
dopo, e cioè il 27 aprile, una colonna di circa tremila uomini, dei quali
un buon 80 per cento italiani e il resto tedeschi, al comando del colonnello
Pasquali del primo reggimento della Monterosa, si arrese a un reggimento di
nippoamericani, il 442° Fanteria della 92° Divisione Buffalo al comando
del colonnello Paul Goodman. Alla resa non parteciparono i partigiani, ma molti
anni dopo, il 27 aprile del 1995, l'allora sindaco di Bargagli Luciano
Boleto inaugurò un monumento nel quale si diceva che la colonna, formata
da settemila uomini (?), si arrese alle sole forze partigiane. Mettendo così
sul marmo un palese falso storico a uso e consumo di chi su una certa Resistenza
ha sempre campato.
Ma torniamo all'agguato del 19 aprile. Inferiori di numero, i tedeschi
quando si accorsero di essere circondati, decisero di arrendersi e alzarono
le mani. Ma non sapevano con chi avevano a che fare. I "borsari"
infatti cominciarono a sparare e i mitra non si fermarono fino a quando l'ultimo
soldato germanico non fu ucciso.
Tale comportamento non deve stupire più di tanto, in quanto la banda
non era ancora inquadrata nelle formazioni partigiane attive nella zona, per
cui non si atteneva a precisi ordini militari. Lo scopo, caso mai, era eliminare
il nemico straniero per depredarlo. Nulla di più. E quella volta il bottino
dovette essere molto più consistente di quanto essi stessi avessero potuto
immaginare.
Le voci che ci sono arrivate dicono cose diverse. Qualcuno sostiene che il reparto
tedesco trasportasse fogli ancora freschi di stampa della Zecca di Stato con
biglietti da mille lire, ancora da tagliare. Altri dicono invece che avessero
casse piene di fedi d'oro "donate alla patria", lingotti prelevati
dalla riserva aurea di una banca e altri preziosi. Nessuno, se non i presenti,
ha mai saputo che cosa realmente ci fosse
in quelle casse. Di certo, però, era un tesoro. E un tesoro deve essere
spartito. La banda decise così di incontrarsi in gran segreto la sera
del 24 aprile 1945 in una villetta di Sant'Alberto, una delle tante frazioni
di Bargagli, dove poter tranquillamente dividere il bottino lontano da occhi
indiscreti. Ma si sa, meno si è e più aumenta la parte del gruzzolo
ai rimanenti. Per farla breve, quella sera i mitra tornarono a cantare e sul
pavimento della villa restarono i corpi di quattro partigiani. E siamo così
a cinque morti, ma il numero sarebbe presto aumentato. Due giorni dopo, durante
un ballo in piazza per festeggiare la Liberazione, improvvisamente scoppia una
bomba anticarro che si porta al creatore altri quattro membri della "banda
dei vitelli". E siamo a nove.
Ma con la Liberazione la vita comincia a tornare sui binari della normalità,
per cui nel 1946 la magistratura decide di aprire un fascicolo sull'uccisione
dell'appuntato Carmine Scotti e sull'operato della "banda
dei vitelli". I primi a essere interrogati dal giudice sono un altro carabiniere
di Bargagli, Armando Grandi, e Federico Musso, il becchino del paese, chiamato
anche "Dandanin". E il cadavere del povero Scotti viene ritrovato
e riesumato.
Subito, però, qualcuno si allarma. Sono gli anni di Togliatti e nessuno
vuole mettere in piazza tutti gli eccessi e le carneficine compiute per vendetta
o vecchi rancori dai gruppi di partigiani ancora armati. Insomma, l'inchiesta
viene accantonata e qualcuno mette in giro una ballata popolare per festeggiare
l'avvenimento: "Bellu bellu l'è u scanello / u saieiva
u megiu stallu / pe a banda di vitelli". Che, tradotto dal genovese,
significa "Bello bello è lo scanello (cioè una parte pregiata
del manzo) / sarebbe lo stallo migliore / per la banda dei vitelli".
Ma in un paese così piccolo le voci corrono. E si dice che quel "Dandanin"
si sia lasciato andare un po' troppo con il giudice dell'inchiesta.
Potrebbe aver detto in quante parti è stato diviso il tesoro dei tedeschi,
chissà? E così, il 9 novembre 1961 Federico Musso "Dandanin",
ex becchino, viene trovato ucciso con la testa fracassata a colpi di spranga,
in campagna.
L'avvertimento è per tutti gli altri: chi parla è perduto.
Ma "Dandanin" era un povero Cristo al quale molti volevano bene.
Quel brutale omicidio era parso eccessivo, anche per mantenere un segreto come
quello, e dietro le porte chiuse qualcuno parlava e si lamentava. Ma altri origliavano.
E il 17 dicembre 1969 Maria Assunta Balletto, ex staffetta durante la Resistenza,
viene trovata morta, anche lei con la testa sfondata da una spranga, dall'amica
Maria Ricci, a sua volta ex partigiana.
Siamo dunque a undici morti e a Bargagli adesso c'è davvero chi
teme per la propria incolumità. Il 21 aprile 1971, mentre il paese si
prepara a festeggiare la Liberazione, la spranga killer fa un'altra vittima
fracassando il cranio di Cesare Domenico Moresco, detto "Ce", campanaro
della chiesa. Gli inquirenti trovano tutta la casa a soqquadro, ma ancora una
volta nessuno sa nulla o ha visto nulla. L'omertà, a Bargagli,
fa impallidire qualunque centro mafioso delle campagne siciliane.
Passa qualche mese e si verifica un altro "incidente". è
il 24 settembre del 1971 e questa volta tocca a Maria Ricci, la donna che aveva
trovato il corpo della Balletto: per strada, durante una serata particolarmente
buia, qualcuno le assesta un colpo di spranga alla testa. Ma non la finisce.
Forse interrotto da qualche passante, l'ignoto feritore scappa e lascia
la Ricci svenuta in terra. I carabinieri, quando si riprenderà, cercheranno
di sapere qualcosa di più sul suo feritore, ma lei continerà a
dire di non ricordare assolutamente nulla.
La Ricci ha 80 anni e, così come tutte le altre vittime, appartiene a
quella fascia d'età che va dai 60 agli 80 anni.
Ma l'ignoto killer di Bargagli non è ancora soddisfatto. Troppi
in quel paese tra i boschi hanno la lingua lunga, e lui, chiunque egli sia,
questo non lo tollera. L'anno successivo, dunque, Gerolamo Canobbio detto
"Draghin", 76 anni ed ex partigiano, viene atteso sotto casa e colpito
con una spranga al capo. è di buona tempra, e riesce a venirne fuori,
ma ai carabinieri insiste col dire che non ha visto nessuno e non sa chi possa
avercela con lui. Forse spera di cavarsela, come ha fatto la Ricci. Ma si è
fatto male i conti. Il 13 novembre 1972 il suo corpo con il cranio sfondato
viene trovato in una strada di campagna. L'autopsia rivelerà che
è stato colpito con molta violenza almeno sette volte con una spranga.
"Draghin", si raccontava a Bargagli in quel periodo, pare che se
l'intendesse con una certa Giulia Viacava, detta "Nini", 66
anni, con la quale si confidava. Il 23 marzo 1974 anche "Nini" viene
trovata con il cranio sfondato sulla stessa strada dove era stato ammazzato
il suo presunto amante.
A
quel punto, e solo a quel punto, cominciò a circolare la voce del "mostro
di Bargagli" e un sostituto procuratore molto coraggioso, Luigi Carli
(lo stesso che diventerà procuratore generale a Genova e negli anni Ottanta
farà condannare i Br della colonna genovese) apre finalmente un'inchiesta.
Quasi subito i sospetti di Carli caddero su Francesco Pistone, 65 anni, detto
"o bregadé", un ex carabiniere che nel '44 aveva disertato
per entrare a far parte delle Squadre di Azione Partigiane. Pistone non è
nativo di Bargagli, ma vi risiede dal 1928, lavora in Comune e viene sospettato
da Carli di essere colui che attirò Scotti nell'agguato mortale.
Non appena in paese si diffonde la notizia che Pistone è nel mirino della
magistratura, il sindaco comunista Luciano Boleto insorge attaccando il giudice.
E non sarà l'unica protesta. Il 25 gennaio 1976 uno dei testimoni
chiave dell'inchiesta, Pietro Cevasco, 54 anni, conosciuto per essere
un altro degli amanti della "Nini", uccisa due anni prima, viene
trovato impiccato. Lo stato in cui è ridotto il viso, gonfio per le tumefazioni,
lascia ben pochi dubbi su come sono andate le cose, ma a quel punto scoppia
il finimondo. La giunta comunista del Comune di Bargagli, spalleggiata dall'Anpi,
urla a squarciagola su tutti i media che "Carli vuole criminalizzare la
Resistenza". E il Partito Comunista soffia sul fuoco puntando il dito
accusatore contro il magistrato sia a livello regionale che nazionale. In altre
parole, Carli era andato vicinissimo a dare un nome e un cognome all'assassino
di Bargagli, ma se questi fosse stato scoperto con ogni probabilità non
sarebbe stato zitto e avrebbe rivelato verità inconfessabili. Verità
che comunque i comunisti non volevano che a nessun costo fossero rese pubbliche.
Carli, messo sotto pressione a tutti i livelli, è costretto a tornare
sui suoi passi e chiude l'inchiesta. Fu uno degli episodi dove più
si vide l'influenza del Partito Comunista sulla magistratura.
A Bargagli, però, il sangue continuò a scorrere. Il 18 giugno
1978 Carlo Spallarossa, 63 anni, finisce misteriosamente giù da un dirupo.
Qualcuno si affrettò a dire che si trattava di un incidente. Ma la testa,
sfondata e fracassata, venne trovata a diversi metri dal corpo.
A questo punto si devono registrare due strani episodi. Il 10 novembre 1980
Francesco Fumera, 70 anni, contadino sardo che accudisce i terreni della parrocchia,
viene ferito al braccio da un colpo di fucile. Dopo poco più di un mese,
siamo al 20 dicembre 1980, Carmelo Arena, 56 anni, disoccupato originario di
Catania, viene centrato da un altro colpo di fucile. La sua agonia durerà
cinque giorni, durante i quali si rifiuterà di dire qualunque cosa. Poi
muore.
A quel punto, non trovando un nesso diretto tra questi due ultimi fatti di sangue
e i delitti precedenti, gli abitanti di Bargagli pensarono che la strage post
bellica fosse conclusa. Ma non era così.
Il 30 luglio 1983 la baronessa Anita De Magistris, pianista e direttrice del
locale coro parrocchiale, viene trovata vicino a casa sua con il cranio fratturato
da un colpo di spranga. Era appena scesa dall'auto e si stava dirigendo
verso il portone, quando è stata raggiunta e colpita da uno sconosciuto.
L'indomani la baronessa entra in coma e morirà una settimana più
tardi senza aver ripreso conoscenza.
Ma Anita De Magistris non era una donna qualunque. Infatti era la vedova di
Paul Drews, l'ufficiale della Wehrmacht che nel '44 era di stanza
nei cantieri navali di Riva Trigoso e che venne ucciso nell'agguato del
19 aprile al bosco della Tescosa, a Bargagli. Dopo diversi anni la vedova aveva
comprato una casa proprio in quel bosco e si era inserita nella comunità
di Bargagli. Si dice, anche, che facesse molte domande su come allora si fossero
svolti realmente i fatti. Forse troppe domande. Ma del resto: cosa cercava davvero
la baronessa a Bargagli? Voleva identificare i responsabili della morte del
marito oppure aspirava al tesoro che il coniuge stava trasportando?
Gli interrogativi cominciano a essere troppi per restare senza risposta e questa
volta è il sostituto procuratore Maria Rosaria D'Angelo che dice
"basta" e riapre un'inchiesta sul caso Bargagli. Al fianco
della magistrata ci sono due investigatori dei carabinieri che lasceranno il
segno a Genova: il maggiore Antonio Reho e il maresciallo Augusto Calzetta.
Sarà grazie al loro lavoro che la dottoressa D'Angelo potrà
consegnare al dottor Francesco Paolo Castellano, capo dell'Ufficio Istruzione
del Tribunale di Genova, un sostanzioso rapporto nel quale si evince la connessione
tra quattro dei delitti di Bargagli: Carmine Scotti, Gerolamo "Draghin"
Canobbio, Giulia "Nini" Viacava e Anita de Magistris. La richiesta
è di 12 mandati di comparizione.
Ovviamente Comune di Bargagli, Anpi e Partito Comunista cominciano di nuovo
a strillare per "il fango sulla Resistenza", ma il gioco non funziona
più. Castellano, da quel galantuomo che è, si rifiuta di insabbiare
la pratica e la passa al giudice istruttore Bernardo Di Mattei per farla proseguire.
Il dottor Di Mattei si scontra subito con un muro di omertà, ma va avanti.
E alla fine fa arrestare il maresciallo Armando Grandi, lo stesso che da brigadiere
nel '45 aveva svelato dove fosse la tomba di Scotti a Gattorna. Al giudice
diceva di non ricordare, ma la memoria gli tornò presto. E partirono
così le prime 14 comunicazioni giudiziarie che riguardavano Pasquale
"Pasqua" Buscaglia, membro della Volante Partigiana, medaglia d'argento
della Resistenza; Francesco "o bregadé" Pistone, il traditore
di Scotti; Dino "Pierre" Spallarossa, membro delle Squadre d'Azione
Partigiane (Sap);
Orfeo "Fuoco" Cavelli, membro Sap; Silvio "Pirri" Ferrari,
capo della Volante Partigiana; Alfredo "Fredin" Olcese, ex partigiano;
Renato "Cillo" Olcese, suo fratello, ex partigiano; Ercole Nirso;
Giovanni Bruni Mezzadra; Amedoro "Medoro" Cevasco, macellaio e membro
Sap (il suo nome viene menzionato nella ballata sulla "Banda dei Vitelli").
Nuove comunicazioni giudiziarie colpiscono poi altri quattro membri della famiglia
Cevasco: Enrico "o merlo", Virgilio "o rango", Attilio
"o carrega" e Valerio.
Alcuni di loro confesseranno che erano entrati nella Resistenza soltanto il
20 aprile del 1945, cinque giorni prima della Liberazione.
Per capire quale fosse il clima di quei giorni, basti pensare che il primo luglio
del 1984, mentre Renato Olcese è sotto interrogatorio da parte del magistrato
in quanto si raccontava che proprio a casa sua, a Sant'Alberto, l'appuntato
Scotti fosse stato torturato e ucciso, improvvisamente viene a sapere che qualcuno
ha appiccato il fuoco alla palazzina. Soltanto per l'aiuto dell'altro
figlio, Alfredo, la vecchia madre non morirà tra le fiamme. L'avvertimento
era palese.
Il 6 luglio vengono eseguiti i primi sei mandati di cattura nei confronti di
Buscaglia, Spallarossa, Calvelli, Ferrari, Amedoro e Attilio Cevasco per "omicidio
premeditato e pluriaggravato nei confronti dell'appuntato Carmine Scotti".
L'indomani parte una nuova comunicazione giudiziaria diretta a Angelo
"o sceriffo" Cevasco, anche lui ex partigiano. Tre giorni dopo Emma
Cevasco, lontana parente della stessa famiglia, non si sa perché, si
uccide buttandosi giù dalla finestra. Abitava proprio di fronte alla
casa di Carmine Scotti.
La battaglia giudiziaria prosegue fino a quando i difensori degli imputati non
si appellano all'indulto voluto nel 1953 dal Presidente della Repubblica
Luigi Einaudi per i reati commessi fino al 18 giugno 1953. E vengono liberati.
Tra l'altro nel corso dell'inchiesta erano venuti fuori altri tre
omicidi misteriosi, cioè quelli del maresciallo Candido Cammeriere e
di Lino Caini, funzionario del Comune di Genova, entrambi collaboratori di Scotti
nelle indagini sulla "banda dei vitelli" nel 1944, e la morte per
ustioni e mutilazioni di Raffaele Cevasco nel 1946. Tutti e tre i delitti erano
coperti dall'indulto del '53.
Ma la strage di Bargagli non era ancora finita. Il 20 marzo del 1985 in una
baracca poco fuori dal paese, viene trovato impiccato al soffitto Francesco
"o bregadé" Pistone. Pare che non ci fossero dubbi sul suicidio,
ma chi poteva dirlo? Fu, comunque, l'ultima morte violenta di quella misteriosa
saga di orrore e crudeltà all'ombra della Resistenza.
L'unica certezza in tutta questa storia resta la sparizione di un tesoro
che in mezzo secolo ha lasciato una scia di sangue lunga 23 omicidi. E ancora
oggi, nonostante quell'incredibile prezzo in vite umane, c'è
chi è disposto a tutto pur di preservare quel terribile segreto.
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