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Portobello
Commovente abbraccio fra il genovese Aldo Franzosi e la sua salvatrice Antonietta De Mattia. Rievocato quel lontano giorno del settembre del 1943

Un incontro a Napoli
dopo 34 anni

(Corriere Mercantile, Pubblicato Sabato 16 Luglio 1977)

Dal nostro inviato
RINO DI STEFANO

E’ difficile immaginare cosa provino due persone quando si rivedono dopo 34 anni, ma è ancora più difficile immaginare il calore del benvenuto con cui Aldo Franzosi, il soldato genovese ritrovato da “Portobello”, è stato accolto a Napoli.
Io ero lì quando il signor Franzosi è sceso dal taxi e ha abbracciato la signora Antonietta De Mattia.
Nel volo da Genova a Napoli avevo continuato a parlare con i coniugi Franzosi e il figlio Fabio, di 14 anni, di come poteva essere quell’incontro e su quanta gente sarebbe intervenuta.
Franzosi aveva addirittura paura che venissero a prenderlo all’aeroporto con una schiera innumerevole di parenti e amici. Essendo una persona piuttosto timida e riservata, non gli andava poi tanto l’idea che tutta la pubblicità che si è creata intorno a questo caso potesse cambiare il corso della sua vita.
Tuttavia, ieri a Napoli lui c’era con uno scopo ben preciso. Primo: doveva incontrare Antonietta De Mattia, la donna che 34 anni fa gli salvò coraggiosamente la vita a rischio della propria.
Secondo: la sera doveva presenziare con la De Mattia ad una ripresa televisiva in diretta per “Portobello” nello stesso vicolo dove si rifugiò quando era braccato dai tedeschi e dove incontrò la donna.
Il fatto, quindi, che non sapesse chi e quanti doveva incontrare oltre la De Mattia lo metteva in uno stato di leggera esitazione.
Bisogna anche dire che la De Mattia, da napoletana verace e estroversa, in precedenza lo aveva chiamato Aldo per telefono e gli dava del tu.
Per lei, insomma, il tempo si era ancora fermato a quel lontano giorno di settembre del 1943, e in Franzosi continuava a vedere il soldatino genovese impaurito che si rifugiò in casa sua.
Ma per Franzosi la storia era leggermente diversa. Infatti, anche se onestamente provava per la De Mattia un sincero affetto, la sua educazione settentrionale gli vietava di dare subito del “tu” alla donna e tantomeno di chiamarla Antonietta. Lui chiamava la De Mattia con il non compromettente titolo di “signora” e di più, in coscienza, non si sentiva di fare.
Quando siamo finalmente atterrati a Napoli, abbiamo constatato che non c’era nessun comitato di benvenuto a riceverci, anche perché erano le 4,30 del mattino.
La mattina dopo, nell’atrio dell’albergo Santa Lucia, mi sono ritrovato con i Franzosi per colazione. Dalla discussione che ne è seguita abbiamo deciso di chiamare immediatamente la De Mattia per avvisarla della nostra presenza a Napoli. Per cui non abbiamo aspettato le 16, ora fissata dalla Rai TV per la prima prova di collegamento dal vicolo di Napoli, e per la quale dovevamo essere tutti in casa De Mattia.
Era uno splendido mattino. Il taxi prima ha preso via Pordenone costeggiando sul mare famosi ristoranti come Zi Teresa e la Bersagliera. Poi ha imboccato via Riviera di Chiaia, la continuazione di via Caracciolo, dove risiedono i De Mattia.
E’ dal taxi che abbiamo visto e riconosciuto la De Mattia vicino al portone 126. Ci siamo fermati e un po’ esitante ed emozionatissimo, Franzosi è sceso ed è andato incontro alla signora De Mattia. C’è stato un abbraccio, qualche onesta lacrima e tanto magone in gola. Poi la De Mattia ha presentato il marito, il signor Umberto Esposito di 64 anni, e Franzosi la moglie Rosa di 45 anni.
Dopo tutte le presentazioni di rito, ci siamo finalmente avviati verso l’abitazione dei De Mattia-Esposito. Questo è un appartamento ricavato nella scuola media statale “Francesco De Sanctis” di cui il signor Esposito è custode.
L’accoglienza che i signori Esposito hanno fatto ai Franzosi, e a me come giornalista, è stata semplicemente fantastica. Ci hanno accolti come se fossimo più che fratelli e ci hanno trattato con una cortesia e una premura di cui solo i napoletani sono capaci.
Per prima cosa la signora De Mattia ci ha presentato i suoi cinque figli, tre ragazze e due ragazzi, che si sono messi subito a parlare con noi mettendoci a nostro agio. Margherita, 24 anni, è la maggiore dei figli. Lei frequenta il quarto anno di architettura ed è quella che ha scritto la lettera a Portobello per la madre. Nunzio, di 22 anni, è un simpatico ragazzo che frequenta il terzo anno di sociologia. Matilde, 20 anni, è vigilatrice d’infanzia all’ospedale S. Umberto di Napoli e sta studiando per completare la maturità artistica. In effetti lei è un po’ l’artista del gruppo e possiede una certa carica spirituale che affascina chi l’ascolta. Raffaele, 18 anni, ha appena terminato un corso di operatore turistico. Infine c’è Anna, di 13 anni, che è alla terza media.
Subito la conversazione si è accentrata su quel lontano giorno del 1943. “Come sono felice”, continuava a dire la De Mattia “non avrei mai creduto che riuscivo a ritrovarla. Si ricorda di mamma? Lei non voleva che partisse – diceva rivolgendosi alla moglie di Franzosi – voleva che rimanesse qui con noi fino alla liberazione. Ma lui voleva andare e noi non potevamo costringerlo a rimanere. Ricordo che quel giorno Aldo si sdraiò su un letto e si addormentò di colpo con le braccia aperte. Era stremato, poverino. Mamma lo guardava e diceva: “Guarda come dorme bene, fighiu miu”.
Franzosi ascoltava commosso e non perdeva una sola sillaba di tutta la conversazione. Era chiarissima sul suo volto una espressione di distesa felicità. “Ricordo tutto, ricordo tutto”, ripeteva, “Quello che più mi ha colpito in quel periodo era proprio sua madre, una donna davvero eccezionale. Aveva due occhi penetranti che ti leggevano dentro l’anima”.
La mamma della signora De Mattia era Margherita Pasquallino, morta all’età di 64 anni. Fu lei con la figlia Antonietta che permise a Franzosi di scappare dai tedeschi. La signora Pasquallino ai suoi tempi fu una delle prime donne sindacaliste d’Italia.
Questa particolarità non è niente altro che una delle cose curiose di casa De Mattia-Esposito. Infatti, basti pensare che tutti i membri della famiglia hanno una qualche caratteristica eccezionale, per un verso o per l’altro.
Ad esempio, il signor Esposito, il capo famiglia, ha un lungo passato di attore e cantante. Durante la guerra Esposito venne mandato in Africa e lì fu fatto prigioniero dagli inglesi. In campo di prigionia rimase sei anni e, un giorno, mi ha detto la figlia Matilde, disperando di tornare a casa vivo, fece il voto che, se fosse sopravvissuto, sarebbe andato tutti gli anni a piedi al santuario della Madonna per ringraziamento. Con lui faceva andare a piedi anche tutto il resto della famiglia. Poi, con l’età, ha cominciato a prendere il treno.
I figli fanno tutti parte del cast di “Napoli milionaria” lo spettacolo di Eduardo De Filippo. Da come si può vedere, non esagero quando dico che si tratta di una famiglia eccezionale.
La storia di Franzosi ha indubbiamente commosso tutta l’Italia e a casa De Mattia è stato tutto un susseguirsi di lettere e telefonate, fino al giorno della prima trasmissione.
Militari, poeti, gente di ogni estrazione si è messa in contatto con i due protagonisti per chiedere del fatto e congratularsi.
Perfino il sindaco di Torino, mi ha detto la De Mattia, le ha telefonato congratulandosi con lei a nome della città.
Ovviamente non sono poi mancati i soliti invidiosi e quelli che non hanno creduto alla genuina spontaneità di quello che è accaduto.
Nel pomeriggio, per ingannare l’attesa, siamo tutti andati in giro per Napoli. Per chi non è mai stato nel traffico di Napoli, l’andare in macchina in quelle strade è davvero un ‘esperienza. Infatti non credo che da nessuna parte i semafori rossi vengano così sistematicamente ignorati e il codice stradale abbia una interpretazione individuale.
In ogni modo, abbiamo visto Margellina, Posillipo e perfino la finestrella di Marechiaro, dove sotto sono ancora incisi i versi di Salvatore Di Giacomo.
Siamo anche andati a fare quattro passi nel centro città, in quello che viene chiamato “spaccaNapoli”. Il brulicare di gente, i piccoli negozietti artigianali e tutto il particolare tipo di architettura, rendono Napoli un monumento alla vita.
Finalmente è sopraggiunta la sera e il vicolo Antonio Serra è stato preso d’assalto dai tecnici della Rai TV e da tutti quei curiosi, perlomeno un migliaio, che volevano farsi vedere a tutti i costi sul video.
Franzosi mi diceva che era emozionatissimo e non sapeva se ce l’avrebbe fatta a raccontare tutto.
Anche la De Mattia era emozionata, ma, al contrario di Franzosi, quello era il suo ambiente e non si sentiva molto a disagio.
A casa i figli e il marito sono di fronte alla televisione. Solo la figlia Matilde era con noi nel vicolo.
Dopo un’attesa che sembrava interminabile, finalmente Tortora ha dato il via al collegamento.
Subito la gente del posto, tra cui centinaia di bambini, ha cominciato a gridare e a spingere provocando il caos tra i tecnici della TV che non sapevano più come tenerli a bada.
Franzosi, pur con tutta la sua paura iniziale, è riuscito a parlare tranquillo, incoraggiato dalla moglie che gli stava vicino. Ad un certo punto Tortora si è riferito al “Corriere Mercantile” e ha chiesto di parlare con me quale incaricato. Ma la ressa è stata tale che il presentatore locale non ha più capito niente e il collegamento ha dovuto essere interrotto.
La gente in quel vicolo pensa cose incredibili: c’era perfino un tizio che cercava di infilare a forza un auricolare nell’occhio di Franzosi.
Come Dio volle, alla fine riuscimmo a ritirarci tutti in casa dei De Mattia-Esposito per festeggiare la trasmissione.
Per l’occasione era stata fatta fare una grande torta con la scritta “Portobello 1943-1976”. Il tutto era annaffiato con un buon champagne.
Cosa si può dire altro di queste due famiglie se non descrivere la gioia e la felicità che c’era in tutti quegli occhi, nel momento che le mani si alzavano per il brindisi.
Da parte mia, sia come inviato del “Corriere Mercantile” che come giornalista, considero un privilegio l’aver assistito questa storia di umanità e generosità fino al suo felice epilogo.

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NOTA DELL'AUTORE

A distanza di 39 anni da quando ho pubblicato questo articolo, devo dire che non è un buon esempio di giornalismo. Complici la giovane età, l’inesperienza e la magica atmosfera napoletana, scrivendolo avevo commesso l’errore più comune e banale nel quale può incorrere un giornalista alle prime armi: il coinvolgimento emotivo nella vicenda di cui mi stavo occupando. Questo è un pezzo scritto col cuore, non con il cervello. Per carità, non rinnego nulla del suo contenuto: solo che dovevo farlo in un altro modo. Più professionale, appunto. Ricordo che lo scrissi sull’aereo che mi riportava da Napoli a Genova. Il mio direttore, Massimo Zamorani, già grande inviato del Secolo XIX per tanti anni, mi disse subito che non andava scritto in quel modo. Ma volle lo stesso pubblicarlo così com’era, forse per rendere l’emozione di quei momenti, così come li avevo vissuti. L’unico che mi fece osservare i miei errori fu il mio capo cronista di allora, Claudio Tempo. Claudio oggi non c’è più, ma ricordo ancora quella volta che mi chiamò in disparte per dirmi come e dove avevo sbagliato. Non ho mai dimenticato quella lezione di giornalismo. Del resto, a mia giustificazione, c’è il fatto che quella era la prima volta che facevo l’inviato. Non solo: quello era anche il primo argomento di cui mi sono occupato, appena entrato nel Corriere Mercantile. E il destino ha voluto che fosse subito uno scoop nazionale, davanti alle popolarissime telecamere di Portobello (26 milioni di telespettatori, circa il 47% della popolazione italiana). Anche Aldo Franzosi oggi non c’è più. Quel simpatico ex soldatino impaurito, eppure così forte nella sua determinazione baciata da un’incredibile fortuna, riposa nel cimitero di Masone, sulle alture del Ponente genovese. Un pensiero riverente va anche a colui che qualche anno dopo sarebbe diventato uno degli eroi del nostro tempo: Enzo Tortora. Mi volle conoscere e, quando lo incontrai, la prima cosa che mi domandò fu se ero nato dentro o fuori le mura. Intendeva la cinta muraria della Genova medioevale. Gli risposi che ero venuto alla luce poco sopra la zona di Principe, a pochi passi dal palazzo dove era nato Gilberto Govi. Fu soddisfatto, anche perché considerava genovesi Doc solo quelli che venivano dal cuore della vecchia Genova. Di Tortora ho il ricordo di un gentiluomo di altri tempi, un vero signore di stampo liberale e dalla vasta cultura, grande professionista del giornalismo e della televisione. Il 30 novembre 1982, mentre in un locale di Milano festeggiavamo insieme alla sua compagna il suo 54° compleanno, l’ultimo da uomo libero prima della sua drammatica disavventura giudiziaria, non so come il discorso cadde sulla figura di Nino Bixio, l’iracondo vice di Garibaldi nella Spedizione dei Mille. Io sapevo l’essenziale su Bixio, nulla di più. E lui se ne accorse. Allora insistette perché lo accompagnassi a casa sua, in via dei Piatti, per prestarmi due libri su Nino Bixio. Non potevo, sosteneva, sapere così poco su un personaggio genovese così importante del Risorgimento.  Qualche mese dopo glieli resi. Feci appena in tempo: alle 4 del mattino di venerdì 17 giugno 1983 i Carabinieri di Roma lo arrestarono a casa sua con le accuse di traffico di stupefacenti e associazione camorristica. Soltanto il 15 settembre 1986, dopo tre anni di calvario giudiziario, la Corte d’Appello di Napoli lo assolse con formula piena, riconoscendo le calunnie dei camorristi nei suoi confronti. Due anni dopo, distrutto nel fisico e nell’animo, Enzo Tortora lasciava questo mondo.

RDS

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