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Figura controversa di religioso, fu autore nel 1946 di un
libro-verità
sui giovani che combattevano i nazifascisti: fu così bersaglio di un
odio bipartisan.
Tifoso della Samp, si è spento il 21 aprile 2007 a 96 anni
Nella vita di Bartolomeo Ferrari tutte le pagine meno conosciute
della guerra di Liberazione:
i "compagni" non gli perdonarono mai la sua testimonianza di fede
(Il Giornale, Venerdì 25 Maggio 2007)
Gli
ultimi anni della sua vita monsignor Bartolomeo Ferrari, Vicario episcopale
per il mondo del lavoro, Arciprete Vicario Foraneo e Commendatore al merito
della Repubblica, conosciuto da tutti come «Don Berto, il prete partigiano»,
li ha trascorsi nella tranquillità del suo studiolo nella parrocchia
di Santa Maria della Cella, a Sampierdarena. Ma non spendeva tutto il suo tempo
a riposare, come la tarda età e i trascorsi avventurosi della sua vita
in montagna potevano far pensare. Sapendo che nell'entroterra alcuni sacerdoti
non dispongono di alcun aiuto per portare avanti il loro ministero, tre giorni
la settimana li spendeva nel paesino di Rocchetta Calafea, in provincia di Alessandria,
dove dava una mano al parroco locale. Spesso, negli inverni più rigidi,
sfidando il gelo e la neve. Anche quando la sua età anagrafica superava
ormai i novanta, continuava a muoversi da un posto all'altro, dritto nella
persona così come doveva esserlo stato quando trentenne si unì
ai partigiani che combattevano le forze nazifasciste.
La figura di Don Berto, proprio a causa di questa sua militanza, è sempre
stata controversa. Sul fronte partigiano, era colui che dispensava lo spirito
religioso a chi si apprestava ad andare in combattimento contro un esercito
risoluto e ben armato come quello tedesco. Impartiva la comunione a coloro che,
molto spesso, non tornavano.
Dalla parte opposta, difficilmente una figura poteva essere più detestata
della sua. Infatti, se i soldati nazisti e i volontari della Repubblica di Salò
avevamo tutti i motivi per odiare i «ribelli» che decimavano le
loro retrovie, non potevano sopportare l'idea che un sacerdote facesse
parte delle Brigate d'Assalto Garibaldi dove militavano comunisti dichiarati.
Un prete scombussolava quell'uniformità politica del nemico cosi
come la propaganda bellica l'aveva dipinta.
C'è da dire, come lo stesso Don Berto mi confermò nel corso di un'intervista che gli feci alcuni anni fa, che fu proprio il comando dei partigiani comunisti a decretarne la morte quando si rese conto che l'operato di quel sacerdote rischiava di minare l'attività propagandistica tra i partigiani. Più volte i comunisti fecero uccidere altri partigiani che non si erano adeguati al loro credo, soprattutto quelli di «Giustizia e Libertà» che li avevano denunciati al Comitato di Liberazione Nazionale. Un esempio fu quanto accadde il 20 marzo 1945 quando i capi partigiani «Bisagno» (Aldo Gastaldi, comandante della Divisione Cichero), «Scrivia» (Aurelio Ferrando, comandante della Divisione Pinan-Cichero) e «Umberto» (Antonio Zolesi, comandante della Divisione Giustizia e Libertà) si riunirono per prendere una decisione circa l'azione di disturbo portata avanti dai commissari politici comunisti nella Sesta Zona Partigiana. Infatti i comunisti, incuranti dell'interesse generale, pensavano soltanto ai propri fini politici procurando anche danni enormi alle popolazioni locali. Partì così la lettera di denuncia indirizzata al Comando militare generale del Corpo Volontari per la Libertà di Milano nella quale si accusava esplicitamente soprattutto il commissario comunista «Miro» (Antonio Uckmar), messo da qualche mese nel Comando unificato, di inettitudine militare e di puntare unicamente all'egemonia politica. «Senza considerare - come scrive Eugenio Ghilarducci nel suo libro "L'ultima missione" - che, a esclusione di "Giustizia e Libertà" che era stata promossa dai partiti d'Azione e Socialista, l'intero movimento partigiano era in stragrande maggioranza apolitico sin dal 1943 e mirava unicamente alla liberazione dell'Italia dal nazifascismo e da ogni genere di dittatura».
Ma ben diversamente la pensavano i partigiani comunisti i quali stavano già
portando avanti il loro piano del «C'eravamo solo noi», volendo
far credere che il movimento partigiano che combatteva sulle montagne fosse
costituito unicamente da elementi col fazzoletto rosso al collo. Un enorme falso
storico che soltanto in anni recenti, quando è stato superato il traguardo
del 2000, finalmente è stato svelato in tutte le sue
ambiguità.
Si può dunque immaginare quanto certi sacerdoti dessero fastidio ai comunisti.
E tra questi ci fu soprattutto Don Berto che, con la sua opera religiosa, finiva
per intralciare il loro progetto.
Per cui un killer, incaricato espressamente di ucciderlo, lo seguì per
diverso tempo pronto ad approfittare del momento giusto per colpirlo. Anche
perché doveva sembrare il solito «incidente». E non fu quindi
un caso che il 9 marzo 1985, anche per smentire una voce che ormai circolava
indisturbata, il Soviet Supremo dell'Urss gli conferì un'onorificenza
quale «combattente della guerra mondiale 1941-1945».
Lui ne rideva, ma il gesto aveva una sua precisa valenza politica.
Ma chi era realmente Don Berto? Di lui si cominciò a parlare nel 1946
quando, a 34 anni, scrisse e fece stampare a sue spese il volume «In montagna
con i partigiani» dove raccontava la sua esperienza di cappellano della
Divisione garibaldina Mingo. In quel libro, che in quel periodo nessun editore
aveva voluto pubblicare per non inimicarsi il forte Partito Comunista dell'epoca,
Don Berto parlava dei giovani che scelsero la strada dei monti per non soccombere
alla tirannia nazifascista. E, raccontando di drammi grandi e piccoli bagnati
dal sangue di tanti ragazzi che combattevano sugli opposti schieramenti, emerge
questa figura di sacerdote che, senza aver mai impugnato una pistola o lanciato
una bomba, si limitava a portare la parola di Dio in un mondo che sopravviveva
solo tra odio, rabbia e rancore.
L'edizione originale del ‘46 ritrae in copertina, in una tinta color
pastello resa pallida dagli anni, un partigiano con la croce rossa cucita sulla
giacca, sullo sfondo di aride e impervie montagne: appunto le cime dell'Appennino
ligure tra Arenzano, Genova e Alessandria dove combatteva la divisione partigiana
ligure-alessandrina che più tardi prenderà il nome di «Mingo».
«Il disegno della copertina - mi confidò in quell'intervista
- mi costò 25 mila lire di allora. La carta, invece, il tipografo me
la regalò perché aveva preso acqua e si era ondulata. Per far
fronte alle spese di stampa mi feci fare un prestito di 500 mila lire che poi
restituii, a copie vendute. Volevo che la gente sapesse come vivevamo lassù
in montagna, volevo che il ricordo di tutti quei ragazzi morti per un ideale
non fosse dimenticato. Non sarebbe giusto».
Per ironia della sorte, alla fine Don Berto venne odiato tanto a destra quanto
a sinistra. I primi lo accusavano di aver esaltato i valori partigiani, soprattutto
quelli dei comunisti. I secondi, invece, non gradivano affatto che quel prete
andasse in giro raccontando che in montagna c'era chi celebrava la Santa
Messa e che tanti ragazzi, prima di andare a combattere, si confessassero e
prendessero la comunione.
Don Berto, però, non si curava affatto delle polemiche politiche e non
prestava attenzione agli insulti che a fasi alterne venivano ora da una parte
e ora dall'altra.
Ad esempio, una violenta polemica lo investì in seguito ad un tragico
attentato che avvenne nella galleria di San Benigno, a Genova, verso la fine
del 1944. Vi perirono circa duemila civili tra uomini, donne e bambini. Oltre
a 200 tedeschi che stazionavano nei pressi.
Le cose andarono in questo modo. Nella galleria si trovava un grosso deposito
di esplosivi dal quale i nazisti avrebbero attinto per minare le banchine e
altri manufatti portuali. Neutralizzarlo sarebbe stato quindi opportuno, ma
c'era un problema. La galleria di San Benigno si trovava tra Calata Molo
Nuovo e Calata Sanità, per cui l'esplosione avrebbe coinvolto l'intera
zona. Non solo. L'area era intensamente popolata con un cospicuo numero
di abitazioni, prevalentemente di famiglie operaie, tutte intorno alle strutture.
Non sappiamo chi decise di minare quella galleria e se ne calcolò le
conseguenze, ma è un fatto che la fortissima esplosione distrusse, oltre
alle costruzioni portuali e a tre navi militari attraccate in porto, tutte le
case dell'area uccidendo appunto un paio di migliaia di persone.
Che siano stati i partigiani a provocare quel macello, non ci sono dubbi. Il
24 ottobre 1944 su «Italia Combatte», una pubblicazione clandestina
che veniva diffusa dall'aviazione alleata, veniva pubblicata la rivendicazione
dell'attentato. Il giornale è ancora conservato nella sua forma
originale presso l'Istituto Storico della Resistenza a Cuneo. L'articolo
diceva:
«I patrioti hanno fatto saltare a Genova, il 10 ottobre, nella galleria
presso "La Lanterna", un deposito che conteneva una ingente quantità
di esplosivi destinati dai tedeschi alla distruzione delle fabbriche della zona
al momento della ritirata. Lo scoppio ha provocato la distruzione delle gallerie
a Calata Molo Nuovo e Calata Sanità. Danni si sono pure verificati in
altre due gallerie più distanti. Tre piccole navi da guerra sono state
affondate: alcune navi di scorta danneggiate. Circa 200 tedeschi sono rimasti
uccisi. I lavori di riparazione nel porto sono ancora in corso».
Delle duemila persone rimaste uccise, neppure una parola.
Ma quella non fu l'unica pubblicazione in cui venne resa nota la rivendicazione
dell'esplosione. Nel marzo del 1945 nelle tasche di un partigiano catturato
dai nazisti, venne trovata una copia del «Ribelle», il giornalino
clandestino di cui si occupava proprio Don Berto. In quelle pagine dattiloscritte
e ciclostilate c'era l'intera rivendicazione dell'attentato:
«10 ottobre 1944. In obbedienza agli ordini emanati dal Comando Supremo
Alleato su nostra segnalazione, partigiani al comando di un noto
audacissimo Capo, approfittando intelligentemente di un violento temporale,
si sono introdotti di buon mattino nella galleria di San Benigno a Genova, che
risultava da tempo adibita a deposito di materiali esplosivi, certo destinati
a provocare altre distruzioni nel porto. Mediante impiego di un congegno a orologeria
veniva provocata l'esplosione di detta galleria con quanto in essa contenuto.
I nostri partigiani, ritardando convenientemente l'esplosione, potevano
mettersi in salvo senza venir travolti nel crollo generale». Loro, dunque,
si erano messi in salvo, ma la povera gente che viveva da quelle parti non ha
avuto scampo.
Di tutto questo ha parlato un articolo del «Corriere Mercantile»
pubblicato il 31 marzo 1945, a meno di un mese dalla Liberazione, rintracciabile
ancora oggi.
Il fatto che questa rivendicazione fosse stata pubblicata su «Il Ribelle»
di Don Berto gli ha attirato addosso non poche accuse, anche perchè era
chiaro che gli attentatori avessero sacrificato duemila persone per neutralizzare
i tedeschi. è ovvio che Don Berto non avesse alcuna responsabilità
diretta dell'accaduto, anche perché non è certo a lui che
il Comando partigiano chiedeva il permesso per fare un attentato. Ma quell'episodio
lo segnò.
Pensando a lui, mi viene in mente anche lo sdegno che provava verso coloro che a fine guerra si erano fatti passare per partigiani, come i furfanti che hanno causato la strage di Bargagli. «è una triste realtà - disse Don Berto nel corso di un'intervista - Il movimento partigiano è diventato il campo di tutti: hanno il diploma partigiano tanto quelli che hanno imbracciato il fucile due giorni dopo l'otto settembre, quanto quelli che sono saliti sui monti due giorni prima del 25 aprile. E domani, dovessero invertirsi le parti, questa gente brucerebbe, strapperebbe il diploma. è vero il detto "Chi mi dà da mangiare lo chiamo padre". Le convinzioni sono fatte di fronte allo specchio dei propri interessi».
Ma Don Berto, Resistenza a parte, era anche un sampdoriano sfegatato. Sì racconta
che il 19 maggio 1991 le campane della chiesa della Cella, cioè quella di cui
lui era parroco, suonarono a ognuno dei tre goal fatti dai blucerchiati e a
fine partita. L'indomani lo videro andare in giro con il presidente Paolo Mantovani
per vedere i colori della Samp sui muri delle strade di Sampierdarena.
Don Berto e morto il 21 aprile 2007 a 96 anni. La sua figura di prete partigiano
gli sopravvive nei libri di storia.
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