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DAL NOSTRO LETTORE SPECIALE

Gli extracommunitari in Italia?
Il primo fu un tale Enea

di Rino Di Stefano

(Il Giornale, Pubblicato Venerdì 2 Ottobre 2009)

Gli scrittori italiani e l'emigrazioneNell’antichità il primo “extracomunitario” di una certa fama ad approdare sui lidi d’Italia in cerca di fortuna fu un tale Enea che, con tanto di famiglia, masserizie e compagni d’impresa era in cerca di una nuova patria. La sua, la mitica Troia, l’aveva persa laggiù, nei pressi del Bosforo, dopo che quel diavolo di un Ulisse riuscì ad espugnarla imbrogliando i troiani con un enorme cavallo di legno. Come ci lasciò scritto Omero, vinsero gli Achei che misero a ferro e fuoco la città costringendo i pochi superstiti a fuggire in tutta fretta via mare, senza guardarsi indietro. Già da allora, tra greci e turchi non correva buon sangue. Per cui, affidandosi ai venti e al dio Nettuno, alla fine Enea e soci raggiunsero le coste italiane dove, sempre secondo la mitologia, avrebbero buttato le basi per quello che sarebbe poi diventato l’impero romano.
Un po’ come dire che siamo tutti figli di quell’”extracomunitario” dal passato doloroso…
E’ con questo piccolo ma significativo esempio che il professor Francesco De Nicola, ordinario di Letteratura italiana contemporanea presso l’Università di Genova, introduce il suo libro “Gli scrittori italiani e l’emigrazione”, Ghenomena Edizioni, intervenendo su uno dei temi più sentiti di questo preciso momento politico. Anticamente, ci fa osservare il professor De Nicola, l’abbandono della propria terra era considerato una vera sventura e il viaggio una punizione degli dei. Col tempo, però, le cose cambiano. E oggi ci troviamo di fronte ad un fenomeno epocale che spinge milioni di esseri umani a lasciare i deserti e le jungle africane (ma non solo) verso le periferie delle città europee. Una vera e propria invasione che, ovviamente, suscita non poche preoccupazioni da questa parte del Mediterraneo, a prescindere dall’umana comprensione che l’ondata immigratoria non può non suscitare.
Ma De Nicola non affronta l’attuale aspetto politico e sociale dell’emigrazione. Anzi, egli ci ricorda che ci fu un tempo, neanche troppo remoto, in cui fummo noi italiani ad attraversare l’oceano per cercare una nuova vita in terre lontane. Noi, allora, viaggiavamo nelle puzzolenti stive dei bastimenti a vapore, mettendoci quasi un mese prima di vedere la gigantesca statua di una signora in verde che regge una fiaccola. Adesso, invece, basta anche un gommone e in due o tre giorni, se non ti fermano prima, arrivi in vista del porto di Lampedusa.
Ma vediamo, dunque, come veniva vista l’emigrazione in Italia da quando, già a metà dell’Ottocento, intere popolazioni decisero di lasciare paesi e città, per non farvi mai più ritorno. Un evento, questo, che coinvolse l’Italia intera, dalla Sicilia al Veneto, nella comune convinzione che non era il caso di continuare a vivere in un Paese dove troppa gente non riusciva nemmeno a fare un pranzo al giorno. Partivano in centinaia di migliaia. E antiche fotografie ci mostrano ancora oggi gli accampamenti di fortuna che crescevano a vista d’occhio sulle banchine del porto di Genova in attesa dell’imbarco. Fu un costante e continuo crescendo: nel decennio 1891-1900 la media annua era di 300.000 emigranti, 600.000 tra il 1901 e il 1910, 873.000 nel solo 1913. E non è che i politici del tempo cercassero di bloccare la fuga. Anzi… Quintino Sella, ministro delle Finanze dal 1862 al 1873, ammetteva che: “Dove c’è il lavoro, ivi è la patria”. E in tempi più recenti, cioè nell’ultimo dopoguerra, il primo ministro Alcide De Gasperi ripeteva agli italiani: “Andate, cercate lavoro e fortuna oltre le frontiere”. E, naturalmente, moltissimi lo presero in parola.
Per cercare di capire che cosa accadeva in quei tempi, è necessario schiarirsi le idee su quella che era la reale situazione sociale dell’epoca. Oggi, per esempio, si fa un gran parlare del Risorgimento mettendo in discussione quanto accadde in quegli anni per cercare di riunire un Paese dove ogni regione costituiva un mondo a sè. Ma alla nascita del Regno d’Italia, ci ricorda De Nicola, gli analfabeti superavano il 75 per cento della popolazione, con punte del 98 per cento al Sud. E’ ovvio, quindi, che il Risorgimento fosse un movimento creato da pochi e illuminati borghesi. Del resto, dal 1700 ad oggi c’è mai stata una rivoluzione che non sia nata dalla volontà di un ristretto numero di intellettuali?
La verità è che al tempo di Vittorio Emanuele II, primo re d’Italia, su 25 milioni di italiani erano meno di 600.000 quelli che parlavano la lingua nazionale. Non la parlava neanche il sovrano di casa Savoia, il quale si esprimeva solo in piemontese, mandando in bestia persino la buonanima di Garibaldi. Insomma, il concetto di patria era completamente estraneo alla stragrande maggioranza della popolazione che, ormai da secoli, considerava il governo come espressione di un potere estraneo che veniva esercitato con la violenza su di loro. Ed è questa la ragione per cui l’Italia da sempre è stata terra di conquista da parte degli altri stati europei. Francesi, spagnoli, austriaci e inglesi avevano da sempre la loro identità: tutti, all’interno dei propri confini, si sentivano, e si sentono, parte di una nazione precisa. Gli italiani, quando andava bene, non superavano l’appartenenza ad una città o ad un piccolo territorio. Non che adesso sia tanto diverso…
Una delle testimonianze più toccanti del viaggio dell’emigrante verso la sconosciuta America, ce lo ha lasciato Edmondo De Amicis il quale, nel suo libro “Sull’Oceano”, scritto nella forma di un diario di bordo, racconta i ventidue giorni trascorsi appunto sul bastimento “Nord America” da Genova a New York: 1600 passeggeri di terza classe (400 dei quali donne e bambini), stivati sottocoperta,  70 passeggeri suddivisi tra prima classe (tra i quali De Amicis) e seconda classe, 200 uomini di equipaggio. E quando lo scrittore domanda ad un contadino del Veneto perché emigra, l’uomo lo guarda stupito e risponde: “Mi emigro per magnar”.

“Gli scrittori italiani e l’emigrazione” di Francesco De Nicola, Ghenomena Edizioni, 2008, pp. 157, ISBN 9788895857015, €15,00.

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