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DAL NOSTRO LETTORE SPECIALE

Quando il cinema racconta bugie sulla storia

di Rino Di Stefano

(Il Giornale, Pubblicato Sabato 18 Aprile 2009)

La storia non è un film – Da Zapata al Vietnam: il Novecento ‘tradito’ dal grande cinema. Miti, silenzi, bugieQuante volte vi è capitato, mentre guardavate un film di ambientazione storica, di domandarvi se i fatti di cui parlava quella pellicola si erano svolti proprio in quel modo? D’accordo, non tutti hanno le conoscenze specifiche per poter giudicare un fatto storico per quello che è stato. Ma assistere ad uno spettacolo la cui trama è palesemente fuorviante, se non addirittura intenzionalmente modificata rispetto alla verità dei fatti, è una cosa che urta molto. Anche perché a quel punto diventa evidente che quel film è stato realizzato con lo scopo di travisare la storia e propagandarne, invece, una versione addomesticata per un qualche fine più o meno recondito.
Sembra che stiamo parlando di eccezioni cinematografiche, ma così non è. E’ vero invece che buona parte della filmografia di carattere storico è stata volutamente addomesticata per ragioni che vanno dal politico all’artistico, a seconda dei casi. A raccontare queste falsità sul grande schermo, è Bruno Pampaloni, giornalista e studioso genovese dal promettente futuro, che recentemente ha pubblicato, per le Edizioni Settimo Sigillo, il volume “La storia non è un film”, dall’eloquente sottotitolo “Da Zapata al Vietnam: il Novecento ‘tradito’ dal grande cinema. Miti, silenzi, bugie”.
L’autore ha preso come esempi dieci film di grande successo, ognuno dei quali parla di precisi fatti storici. Solo i fatti reali, però, sono precisi. Non lo sono affatto, invece, quelli descritti sullo schermo. Vediamone alcuni, per cercare di capire che cosa sia stato volutamente cambiato nelle sceneggiature. Il primo film che Pampaloni ci propone è “Viva Zapata!” del 1952, regia di Elia Kazan, sceneggiatura di John Steinbeck, attore protagonista un indimenticabile Marlon Brando. Un colossal dell’epoca, indubbiamente.
Come tutti sappiamo, il nome di Zapata oggi viene speso con sempre più frequenza per intendere un concetto di comunismo radicale, il simbolo di una rivoluzione fatta per rendere giustizia agli oppressi. Ed è anche questo il mito che Kazan e Steinbeck, in quegli anni entrambi nel mirino della Commissione per le Attività Antiamericane (Huac) presieduta dal famigerato senatore repubblicano del Wisconsin Joseph McCarthy, volevano riprodurre. In pratica, affascinati dalla figura di Emiliano Zapata e contrariati dal clima da caccia alle streghe che McCarthy aveva introdotto negli Stati Uniti, i due volevano fare risaltare i valori sociali del contadino-generale. Che Zapata combattesse per rendere giustizia ai peones è un fatto accertato. Quello che non è assolutamente vero è che la sua ribellione al governo del dittatore Porfirio Diaz avesse una qualche connotazione di lotta di classe. Zapata non parlò mai di abolizione della proprietà privata, bensì di restituzione della terra ai contadini affinché potessero coltivarsela da legittimi proprietari. Si arriva al punto che uno scrittore come Robert Milton definisce Zapata come un “borghese-democratico, antimperialista e antifeudale”. L’etichetta di comunista il povero Zapata non la voleva davvero, ne è prova il fatto che fece di tutto per far riconoscere al governo americano la legittimità della sua rivoluzione.
Altro film, altre storture storiche. Questa volta consideriamo “Lawrence d’Arabia” del 1962, di David Lean, sceneggiatura di Roberto Bolt e Michael Wilson, un cast eccezionale con attori come Peter O’Toole (il protagonista), Alec Guinness, Anthony Quayle, Anthony Quinn, Omar Sharif. Un filmone, nel vero senso della parola.
Come molti ricorderanno, si parla del tenente del Servizio Segreto britannico Edward Lawrence (1888-1935) che, ottenuta la fiducia del principe Feisal, guida la rivolta degli arabi contro i Turchi dell’impero ottomano. Poi, una volta conquistata Damasco, il tenente si ritira a vita privata, concludendo la sua esistenza in un tragico incidente stradale con la sua motocicletta. In pratica, doveva essere la biografia di Lawrence. Ma, mentre si è abbondato col mito, la storia è stata messa in un cassetto. Pampaloni, infatti, ci fa notare come il principe Feisal non fosse affatto quel leader colto e illuminato che, ad un certo punto della sua vita, ha raccolto intorno a sé tutti gli arabi, allora divisi tra mille tribù sempre in guerra tra loro, per combattere il comune nemico turco. E’ vero invece che tanto Feisal quanto suo padre Hussein, si schierarono contro i turchi perché lautamente pagati da Lawrence. Convinti, quindi, “solo dal fascino indiscusso delle sterline inglesi”. Per la precisione, dieci milioni di sterline dell’epoca. Una fortuna, altro che romanticismo. Di unità araba se ne comincerà a parlare solo negli anni Sessanta, con il leader egiziano Nasser. Al tempo di Lawrence, invece, si parlava di interessi britannici contro interessi turchi. Il tenente, insomma, fece il suo dovere di militare, ben sapendo quali sarebbero state le conseguenze.
Non vado oltre per non togliere al lettore il gusto della sorpresa. E in questo libro, tutto da leggere, di curiosità ce ne sono tante.

“La storia non è un film – Da Zapata al Vietnam: il Novecento ‘tradito’ dal grande cinema. Miti, silenzi, bugie” di Bruno Pampaloni, Edizioni Settimo Sigillo, 2009, pp. 142, ISBN 9788861480513, €15,00.

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