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Napoli, scrive Malaparte, e la sola città del mondo antico
che non sia perita come Ninive o Babilonia

DA GENOVA A NAPOLI
WITH LOVE

di Rino Di Stefano

(Lo Strillo, Pubblicato Martedì 1 Dicembre 2015)

Foto ricordo dell'incontro promosso da Portobello di Enzo Tortora tra le famiglie Esposito e Franzosi a 34 anni dal salvataggio di Aldo da parte di Antonietta

“Parto. Non dimenticherò né la via Toledo né tutti gli altri quartieri di Napoli; ai miei occhi, senza nessun paragone, la città più bella dell’universo”. E’ così, con l’animo colmo di tristezza, che Marie-Henri Beyle, più noto come Stendhal, salutava la città di Napoli dopo un breve ma intenso soggiorno. Siamo nella prima metà dell’Ottocento, un secolo pieno di cambiamenti radicali che hanno visto il capoluogo partenopeo coinvolto al massimo livello. Del resto, come scriveva sempre Stendhal, “In Europa ci sono due capitali: Parigi e Napoli”. E non era solo un modo di dire.
Venendo al presente, fa male assistere alla campagna denigratoria che sembra fatta apposta per colpire Napoli, esaltandone tutti i difetti. “Napoli è sporca”, “Napoli è pericolosa”, “A Napoli non funziona niente”, e così via. In tutti i principali quotidiani nazionali c’è sempre un qualche articolo che ricalca questi stereotipi. Improvvisamente, sembra che tutti i mali del mondo si siano concentrati su questo angolo d’Italia, oscurandone la storia e tutti i suoi non pochi meriti. Eppure, se vogliamo essere onesti e dire le cose per quelle che sono, bisognerebbe ammettere che quando si scrive di Napoli non si può parlare di una città qualunque. Napoli è un mondo a parte, una filosofia di vita, un modo di essere che può essere condiviso o meno, ma esiste in tutta la sua concretezza. “Napoli – scriveva Curzio Malaparte – è la più misteriosa città d’Europa, è la sola città del mondo antico che non sia perita come Ilio, come Ninive, come Babilonia. E’ la sola città al mondo che non è affondata nell’immane naufragio della civiltà antica”. Mi perdoni dunque il lettore se in questo articolo, parlando in prima persona, racconterò una storia che mi ha coinvolto personalmente e che, a cavallo tra presente e passato, ha costituito il mio lasciapassare nel mondo partenopeo. E’ stato il mio approccio con Napoli, un episodio che mi ha insegnato l’umanità del popolo napoletano e che mi ha fatto comprendere il significato, molte volte oscuro per chi è estraneo alla città, della “napoletanità” nel suo significato più profondo. Se volete, è la scoperta di Napoli da parte di un giornalista genovese. Una storia come tante altre che dimostra, qualora ce ne fosse bisogno, che non è possibile etichettare un’intera città senza prima averla conosciuta. Una storia, vorrei insistere, che diverso tempo fa fece molto parlare a Napoli e in tutta Italia, ma della quale soltanto adesso rivelo pubblicamente i retroscena.
Ma veniamo ai fatti. La mia storia inizia l’8 Settembre del 1943, in una stradina poco distante dalla Riviera di Chiaia. E’ un giorno infausto per l’esercito italiano. Il governo di Vittorio Emanuele III ha appena dichiarato l’armistizio con le truppe anglo-americane, scappando poi con vettovaglie e masserizie in quel di Brindisi per mettersi al sicuro dall’inevitabile rappresaglia tedesca. “Il governo italiano, riconosciuta la impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell'intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane – disse il generale Badoglio nel suo famoso proclama alla nazione – La richiesta è stata accolta. Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza”.
Così, mentre Badoglio e i Savoia si mettevano in salvo, i tedeschi arrestavano e mandavano nei loro campi di concentramento 815 mila soldati italiani rimasti allo sbando e senza ordini. Uno di quei soldati era un ragazzo genovese di appena 18 anni, da qualche mese chiamato alle armi e inviato subito sul fronte napoletano. Quel giorno si trovava insieme ai suoi commilitoni in caserma, quando sono arrivati i tedeschi che, dopo aver ucciso a sangue freddo il comandante, li hanno disarmati e costretti a seguirli. Quelli che fino alla sera prima erano i “camerati tedeschi”, adesso li minacciavano e, a calci nel sedere, li costringevano a marciare in colonna verso i luoghi di detenzione. Destinazione finale: i campi di concentramento in Germania, dove gran parte dei prigionieri italiani moriranno per stenti e sevizie. Questa era dunque la sorte che sarebbe quasi certamente toccata a quel soldatino genovese se, improvvisamente, giunti ad una casa che faceva angolo con uno dei tanti vicoli della zona, non si fosse accorto di una ragazzina che gli faceva dei segni, cercando di attirare la sua attenzione. “Vieni qua, vieni qua – gli diceva – Scappa che ce la fai…”. Il giovane si guardò in giro. La colonna dei prigionieri era lunga e i tedeschi, non più di un plotone, stavano in cima e in fondo. Quella ragazza era a soli pochi metri da lui e con la mano destra gli indicava un portone dove avrebbe potuto nascondersi. Forse fu l’istinto di sopravvivenza, o forse la sicurezza che in mano ai tedeschi la sua fine sarebbe stata certa. Fatto sta che si fece coraggio e, approfittando che la sentinella tedesca in quel momento non era nella sua visuale, si mise a correre verso quella sconosciuta. La ragazza lo afferrò per un braccio e lo trascinò dentro il portone. Rimasero per qualche attimo fermi e quasi senza respirare, per vedere se ci fosse qualche reazione da parte tedesca. In seguito il giovane raccontò di aver sentito una scarica di mitra, ma non sapeva se fosse stata esplosa a causa sua. Certo è che nessun tedesco si mise al suo inseguimento e, a quel punto, la ragazza (che si chiamava Antonietta De Mattia e aveva 16 anni) portò il soldato nel suo appartamento, raccontando l’accaduto alla madre. La donna, Margherita Pasquallino, si intenerì subito nel vedere quegli occhi terrorizzati. E, chiamandolo “figlio mio” e “piccirillo”, lo fece sedere, gli preparò da mangiare e lo nascose in casa sua, pur sapendo il rischio che correva. Se scoperti, sarebbero stati passati per le armi. “Come ti chiami?”, gli domandò. “Aldo – rispose lui – Aldo Franzosi e sono di Genova”. Il soldato restò due giorni in quella casa. Ma dopo aver vissuto quell’avventura, non vedeva l’ora di tornare a casa. E così, rifiutando le insistenze della famiglia che lo aveva ospitato, decise di lasciare i suoi salvatori e di mettersi in viaggio verso la Liguria. Gli diedero abiti civili e, con mille raccomandazioni, alla fine lo lasciarono andare. Da quel momento di lui non seppero più nulla. Non sapevano se ce l’avesse fatta o se i tedeschi lo avessero ricatturato. In casa ne parlarono per anni, ma quel dubbio rimase.
Facciamo un salto nel tempo e arriviamo nel giugno del 1977, quando lavoravo come cronista nel Corriere Mercantile, il quotidiano genovese del pomeriggio dove ho mosso i miei primi passi nel giornalismo professionale e che oggi non esiste più. Dal momento che appena da una settimana ero arrivato dagli Stati Uniti, dove studiavo giornalismo in una università della Florida, non ero molto ben visto in redazione. Ricordo che in quei primi giorni il capo cronista evitava di affidarmi incarichi di un certo rilievo, anche perché prima voleva valutarmi. Così, mentre passavo il tempo saltando da un compito all’altro, un bel giorno in redazione venne il direttore domandando chi di noi fosse libero. Mentre tutti calavano la testa sulla macchina per scrivere, impegnati a comporre chissà quali meravigliose cronache, fui l’unico a rispondere. E mi invitò nel suo studio. Massimo Zamorani, un passato da inviato speciale con una solidissima esperienza professionale, è un giornalista con la “G” maiuscola. Per intenderci, è uno che diceva ai suoi cronisti di verificare ogni notizia di persona, non di attaccarsi alla cornetta del telefono. Un vizio che, purtroppo, ancora oggi troppi cronisti hanno. Per farla breve, il direttore mi racconta che Enzo Tortora, allora presentatore della celebre trasmissione televisiva “Portobello” e suo grande amico, aveva bisogno di un favore. Una signora napoletana, infatti, gli aveva scritto raccontandogli che l’8 settembre del ’43 aveva salvato un giovane soldato genovese dai tedeschi. Poi questo ragazzo era tornato a Genova e lei non lo aveva più visto. Sarebbe stato possibile, attraverso “Portobello” rintracciarlo? Di lui sapeva soltanto che allora aveva circa 18 anni e si chiamava Aldo Franzosi. Tortora, anche lui un giornalista scafato e di lunga esperienza, sapeva che l’unico sistema per ottenere questo risultato sarebbe stato incaricare un cronista di cercare Franzosi. Dunque, mi chiedeva Zamorani, me la sentivo di assumermi quell’incarico? Che cosa avrei mai potuto rispondere? Era ovvio che quella sarebbe stata la mia grande occasione: appena arrivato in redazione, mi sarei occupato di una vicenda di carattere nazionale. Per cui, accettai subito e mi misi al lavoro. Per prima cosa, mi recai all’Anagrafe del Comune e chiesi del direttore. Mi ricordo che si trattava di una signora, la dottoressa Delfino. Le raccontai tutto e la pregai di aiutarmi, insistendo che quello era il mio primo caso. Credo che le ispirai tenerezza materna, visto che fece quella ricerca e dopo circa mezz’ora mi consegnò una lista di sei nomi, cioè tutti gli Aldo Franzosi che abitavano nel territorio genovese. Tra l’altro, per precauzione, le avevo chiesto di indicarmi anche i nomi delle eventuali mogli, se fossero stati sposati. Tanto per avere un elemento in più. Tornando in redazione, controllai i nominativi. Non sapevo esattamente l’età, anno più o anno meno. Ma su sei ne potevo scartare subito due. Restavano gli altri quattro, tre dei quali nati a Genova e uno a Cremona. Cercai i numeri di telefono. Con diverse peripezie (in alcuni casi le utenze non erano a loro nome) alla fine riuscii a completare la lista. Nell’arco di due giornate, li raggiunsi tutti. I primi tre mi dissero che non erano mai stati a Napoli. Alla quarta telefonata, quando ormai disperavo di riuscire nel mio incarico, parlai con la moglie dell’ultimo nominativo, quello nato a Cremona. La mia domanda era sempre la stessa: “Sa se suo marito ha fatto il militare a Napoli, durante la guerra?”. La signora Rosa, molto gentile, mi rispose subito aprendo, senza saperlo, la mia carriera professionale: “Sì, certo. Una volta mi ha raccontato di essere stato salvato da una ragazza a Napoli…”. Non ci potevo credere. Ero al settimo cielo. Avevo fatto centro. La signora Rosa, insegnante alle Scuole Elementari di Genova-Prà, mi spiegò così che suo marito Aldo era responsabile del reparto manutenzione della Morteo Soprefin, una società del gruppo IRI, e lavorava nello stabilimento di Novi Ligure. La sera, dunque, tornava a Genova piuttosto tardi. Se volevo, potevo chiamarlo intorno alle 21,30. Ed è quello che feci. Al telefono scoprì di parlare con un uomo molto cordiale e molto aperto. Del resto, anche a distanza di tanti anni, sono sempre rimasto affezionato alla famiglia Franzosi. E mi raccontò le sue vicissitudini dal giorno in cui lasciò la famiglia De Mattia: la strada verso Cassino, la tradotta organizzata da Papa Pio XII verso Roma, l’assistenza dell’Opera Pontificia per il mangiare, l’uva rubata nei campi, il nascondiglio su un treno merci, il secondo arresto da parte dei tedeschi a Piacenza. Ma anche in questo caso riuscì a fuggire e, infine, ad arrivare a Genova. Venne tenuto nascosto in cantina dai familiari, fino a guerra conclusa.
La mattina successiva, mi presentai davanti al direttore e gli feci un pieno rapporto dei miei tre giorni di indagine. Fu molto contento, si complimentò e telefonò subito a Tortora per dargli la lieta novella. Forse qualcuno ricorderà quella memorabile serata di “Portobello”. Era venerdì 8 luglio 1977: Tortora invito la signora Antonietta Esposito (che nel frattempo si era sposata e aveva avuto cinque figli), per raccontare in diretta televisiva la sua storia di guerra. Quando lei ebbe finito, si rivolse verso il pubblico e invitò il signor Franzosi, qualora fosse stato all’ascolto, di telefonare al centralino di “Portobello”. In effetti, era tutta la sera che io mi trovavo a casa dei Franzosi. E il telefono era aperto e in linea con "Portobello", anche mentre la signora Antonietta raccontava la sua avventura. Così, al momento giusto, la voce dell’ex soldatino genovese ha fatto capolino a “Portobello”, sconvolgendo 17 milioni di telespettatori: “Pronto, sono Aldo Franzosi”. E il pubblico è andato in delirio. La signora Antonietta si è portata le mani al volto ed è scoppiata a piangere, in studio la gente applaudiva e persino Tortora, che aveva organizzato tutto, era visibilmente commosso. Esattamente una settimana dopo, venerdì 15 luglio 1977, i due protagonisti di questa incredibile ma verissima storia, si incontravano a Napoli a 34 anni dai fatti. Io, quale inviato del Corriere Mercantile, ero al seguito per coprire l’evento. Quando si abbracciarono, non nascondo che partecipai alla commozione generale del momento. Oltre ad Antonietta e Aldo, tutti gli altri, fino ad un momento prima perfetti sconosciuti, si abbracciavano e si baciavano come amici che non si vedevano da anni. E devo dire che io stesso fu come se avessi conosciuto quella gente da sempre. Ecco, questa cordialità sincera e l’affetto che si riusciva a percepire nelle loro parole, mi fecero capire che cosa fosse davvero Napoli. Quella sera ci fu una diretta televisiva e la storia dell’incontro fu la più seguita della giornata. L’indomani l’avvenimento era su tutti i giornali. Da quel giorno ho mantenuto un vero rapporto affettivo con la famiglia Esposito, un rapporto che non è mai venuto meno. Tra l’altro sono ritornato a Napoli altre volte e nel corso di una di queste visite, Margherita e Matilde, due delle figlie della signora Antonietta, che a 88 anni è ancora in gamba e svolge come sempre il suo ruolo di mamma, mi hanno accompagnato per la prima volta nella Cappella del Principe di San Severo. Fu una delle esperienze più interessanti della mia vita e nel corso degli anni sono tornato altre volte in via De Sanctis, per ammirare quella che considero una delle opere più pregevoli lasciate da mente umana ai posteri. Ecco, questa è la Napoli che molti, forse troppi, non conoscono. Prima di denigrarla, dunque, bisognerebbe essere un po’ più umili e avvicinarsi a questa città con la giusta curiosità e il dovuto rispetto.

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